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I NOSTRI AMICI AFGHANI: SEDOTTI, USATI E IN MOLTI ABBANDONATI - Huffington Post, 9 luglio 2021



Il pericoloso destino dei collaboratori dopo il ritiro della NATO


Anni fa Philip Gourevitch scrisse un libro dal titolo “We wish to inform you that tomorrow we will be killed with our families”: era il testo di un messaggio che alcuni tutsi scrissero a un pastore per avvertirlo della mattanza che era già stata comunicata loro. Morirono tutti, come accade a un milione di ruandesi in quel terribile genocidio. Poche settimane prima, il comandante dei caschi blu in Ruanda, il canadese Romeo Daillaire, aveva inviato un fax con un contenuto simile a proposto dell’intero genocidio che si stava preparando, al quale nessuno da New York volle dare una risposta.

Ho pensato a questi appelli, non messaggi in bottiglia abbandonata in mare, ma recapitati a destinatari con nome e cognome, leggendo quanto scritto ad esempio dai “membri dell’Associazione degli Ex Interpreti e Ausiliari Afghani delle Forze Armate francesi”: la denuncia che con il ritorno dei talebani a Kabul, una volta completato il ritiro delle truppe NATO, il destino loro e delle proprie famiglie è segnato.

È il dramma, ignorato in Occidente, di autisti, assistenti logistici, interpreti, informatori, baristi, personale di servizio, che in questi anni con fedeltà hanno condiviso la difficile battaglia di portare sicurezza e valori delle democrazie occidentali in Afghanistan.

“Sono stato in Kosovo, in Libia, in Iraq: ma questi afghani che lavorano con noi sono i più leali. Sono pagati bene rispetto agli stipendi locali, ma a volte devono isolarsi socialmente, interrompere relazioni familiari, perfino nascondersi”. Così mi ha detto un collega europeo a Kabul, e del loro dramma in Occidente ignoriamo tutto. Luigi Caligaris, che fu generale e deputato europeo, era favorevole alla concessione di una pensione per chi avesse a suo modo condiviso una nostra avventura militare, e sarebbe probabilmente stato contento a sapere che l’Italia, con l’operazione “Aquila”, da giugno ha già cominciato a trasferire numerosi collaboratori afghani e le loro famiglie a Roma (ci risulta per un totale di 270 persone), mentre per altri (circa 400) si sta valutando la situazione. Non diversamente si sta comportando la Germania, mentre il Canada ha creato una procedura specifica per i lavoratori afghani. Lituania e Norvegia hanno concesso l’asilo politico a dozzine di loro impiegati afghani.

Molti altri paesi finora sono stati più attendisti. Gli Stati Uniti, che hanno in mano la sorte di ben 18.000 afghani che hanno lavorato per loro, avrebbero chiesto informalmente ai paesi dell’Asia centrale di accoglierne circa la metà, almeno in via temporanea.

Al cospetto di una NATO che si sta muovendo in ordine sparso, ognuno con la sua coscienza, con le sue pratiche, questi afghani gridano un non abbandonateci qui, avendo compromesso, con il loro lavoro pluriannuale a fianco, spesso a protezione, dei soldati occidentali, qualsiasi possibilità di “perdono” da parte degli studenti islamici – gente che va per le spicce. Del resto, la loro sorte è un granello di sabbia nell’oceano dei destini travolti che inghiottisce l’Afghanistan da oltre quarant’anni. Di loro non si parla nei negoziati di pace di Doha, un teatrino dove si allestisce il magro spettacolo di una resa travestita da “accordo tra le parti”. E di loro non si è parlato al recente vertice NATO, che ha liquidato a un paio di paragrafi insapori la capitolazione in Afghanistan – vent’anni di presenza per riconsegnare di fatto il paese a chi lo aveva relegato a una barbarie di cui forse l’Occidente non ha mai preso la misura.

Traditi da una propria classe dirigente spesso avida e nepotista con decenni di corruzione e divisioni, gli afghani vedono una volta di più di tutti coloro che sono venuti – russi o canadesi, australiani o islandesi, pakistani o mongoli – senza che nessuno sia restato e andandosene abbia potuto dichiarare “veni, vidi, vici”. Anzi.

Tuttavia nel lasciare al loro destino migliaia di collaboratori afghani, la sconfitta diventa doppia: non solo si è persa la guerra, ma anche l’etica. Al tempo stesso, l’evacuazione degli afghani amici implica l’ammissione di una sconfitta ormai data per scontata, lo smascheramento di quanto illusoria appare a chi sia sul terreno una pace davvero negoziata a Doha, con garanzie per tutti. La partenza di chi ha lavorato direttamente con l’Occidente è solo il la a un possibile fuggi fuggi generalizzato (in Turchia nelle ultime settimane sono già arrivati oltre trentamila profughi), e un indebolimento ulteriore dei pochi che a Kabul vorranno, o dovranno, restare per provare a resistere contro il ritorno dei talebani. Nessuno sta davvero pensando a chi abbia lavorato nelle organizzazioni non governative europee, alle splendide donne impegnate contro la discriminazione di genere, ai giornalisti – tutte persone che si troveranno più sole.

Da qualunque parte lo si guardi, è uno spettacolo penoso. Lasciare questi “amici” a Kabul è disumano e vergognoso, portarli via è il sigillo della resa, restare a combattere implicherebbe uno sforzo che in venti anni non ha costruito nulla su fondamenta solide, lasciare così equivale ad aver sbagliato quasi tutto.

Sono secoli che l’Afghanistan è la trappola della cattiva coscienza dei comunisti, degli islamisti, dei capitalisti, dei democratici. Tutti si sono presentata con i loro proclami, i loro mezzi di seduzione – e i talebani si sono conquistati un altro giro di giostra nel quale rispolvereranno un aggiornato vocabolario oscurantista di ordine e tradizione segregazionista.

Quasi nessuno è venuto con amore per questo strano popolo, così guerriero e ospitale, testardo e nobile, spietato verso il suo stesso destino. Si è piuttosto portato denaro che ha generato corruzione, molte armi, confusi interessi geostrategici. Col risultato che tutti sono venuti a recitare le parole di Beckett: “Sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.


Niccolò Rinaldi


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