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IRAN, TEHERAN: LA RESISTENZA DEL CINEMA MEDIO-ORIENTALE - Solidarietà internazionale, gennaio 2020


(Questo articolo riprende le conclusioni, presentate dall’autore, della XXII Conferenza Euromediterranea sul Cinema del CICT/UNESCO, tenutasi il 6 settembre al Lido di Venezia in occasione della Mostra del Cinema 2019).

Teatrino iraniano in cinque micro-atti. Primo: fuori, davanti alla libreria, due ragazzi suonano, con chitarra elettrica e batteria, musica rock; nessuno li disturba, qualcuno si ferma ad ascoltare, il volume non è né basso né alto, certo non si nascondono, e il loro cantare è un inno di protesta, una voglia di esserci, una locandina delle intenzioni. Secondo: la libreria è moderna, piano terra e sottosuolo, piena di volumi ben ordinati, una bella libreria internazionale, con opere di tutto il mondo tradotte in persiano e una sezione di libri in inglese; a prima vista c’è un po’ di tutto – poesia, economia, romanzi, ma anche piccoli oggetti di desgin per la casa. Terzo: sullo scaffale delle Belle arti, un volume sulla pittura di Michelangelo presenta una copertina censurata con un foglio bianco – copre un’immagine scabrosa, qualche affresco con una santa scosciata, o una musa con tette al vento; avvolto in una pellicola di plastica, il libro non si può sfogliare – chissà quali altre immagine vietate vi si trovano, e per aprirlo occorre chiamare un commesso. Quarto: la libreria è affollata, e c’è una musica di sottofondo, jazz. Quinto - fulcro della libreria, stanza regale: il frequentato settore con i dvd, e tra loro i maestri del cinema iraniano contemporaneo.

A loro, a questi ultimi spetta il compito di raccontare le contraddizioni di questa libreria, il cortocircuito nel quale da anni è sprofondata la società iraniana. Perché il cinema, quando è Cinema, ha la forza di rivolgersi a un grande pubblico, con sintesi, capacità emotiva, e il linguaggio creativo che più facilmente, anche indirettamente, si adatta a un’analisi politica. Perché il cinema, come in Iran, sa essere politico, altroché se è politico, facendosi carico di un compito vitale in un paese complicato come la Persia del XXI secolo. Una terra dove le donne sono truccate e tengono un velo appena agganciato sui capelli ma che lascia vedere tutto il volto, ma guai a dare la mano a una donna in pubblico, o dove si ammira Michelangelo, ma lo si censura come un istigatore di proibiti desideri sessuali, o dove dei giovani non temono di suonare rock sul marciapiede, e tuttavia potrebbero andare a morire sui campi di battaglia dello Yemen.

L’occidentale fa fatica a cogliere la tensione che scaturisce tra poli così distanti, e si rifugia nello stereotipo che molti applicano a un paese “canaglia” e oscurantista come l’Iran; ma anche gli stessi iraniani fanno fatica a convivere con la loro dimensione statuale, e si rifugiano tra le quattro mura domestica. Oppure, collettivamente, si riuniscono ad ammirare i loro registi.

I quali, facendo in modo così ammaliatore il loro difficilissimo mestiere, costituiscono l’esempio di un cinema civile, resistente e artistico per tutto il Medio Oriente e oltre, delineando un canone sul quale vale la pena soffermarsi su alcuni punti fermi.

  1. Nessuna produzione cinematografica al mondo è condizionata dalla severità di una censura come quella degli ayatollah. Un controllo che traccia una linea rossa invalicabile, e che crea il paradosso di un Grande Divieto all’interno del quale si reagisce coltivando l’arte delle piccole e preziosissime libertà. Il dettaglio, la vicenda domestica, la crisi personale, si fanno metafora di una disgregazione più ampia.

  2. I maestri iraniani hanno successo in patria, e spesso riescono a spuntarla anche rispetto alle maglie dei settori più conservatori, perché la loro arte, così moderna, è figlia diretta della grande tradizione persiana di riflessione esistenziale, così vocata a uno sguardo interiore. Il cinema non come rottura ma come rinnovamento di una conversazione millenaria di tutta una cultura.

  3. Si osservino le trame di questi fili che tengono col fiato sospeso le giurie dei festival internazionali e milioni di spettatori del mondo intero che mai sono stati in Iran: sono storie che rappresentano sempre un punto di equilibrio tra destino individuale e destino di una famiglia, di un villaggio di una comunità. Il privato ha il lato pubblico, e viceversa – e questo è l’unico modo, in Iran e altrove, e uno dei più sofisticati ovunque, per rappresentare il travaglio e le speranze di un’intera società

  4. I registi iraniani, e anche gli attori, osano anche perché sanno che non solo soli: essi testimoniano a nome di un intero e variegato ceto sociale, che include la borghesia cittadina, gli studenti, il “popolino” dei commercianti della provincia, la parte più cosmopolita (c’è) delle forze armate, e ancora. In Iran il cinema è ancora l’espressione di un paese, estromesso dal potere, forse minoranza o forse maggioranza reale, ma che dà forza alle sue pellicole dal basso.

È un canone di cui è sprovvisto il cinema del sud del Mediterraneo (tra le eccezioni, qualcosa in Libano e in Palestina), spesso compiacente col potere, rassegnato alla commedia di circostanza e che dura una mezza stagione, confinato in un provincialismo che non si permette di confrontarsi con le grandi pellicole asiatiche od occidentali. Si preferisce allora esprimersi con coraggio nei blog dei social network o in cortometraggi autoprodotti e diffusi in circuiti alternativi. In diversi paesi del sud del Mediterraneo, un’opposizione a governi autoritari o alla corruzione endemica si raccoglie piuttosto nelle moschee, nelle scuole coraniche. Che è esattamente l’opposto di quanto potrebbe accadere in una teocrazia.

La libreria a Teheran, crocevia di contraddizioni (ma ogni libreria, pure in Italia, è un luogo contraddittorio e incongruente al cospetto delle brutture e delle ignoranze diffuse) ci ricorda che nonostante le differenze linguistiche esiste un pubblico universale – che è quello che compra i libri su Michelangelo o di Kayyam. Il cinema iraniano è scelto da un pubblico universale, contribuisce a plasmare un’opinione pubblica trasversale alla geografia, che in fondo è uno dei compiti dell’arte. Non sventola propaganda e non offre certezze, ma si insinua tra i nostri dubbi e racconta un vissuto che è molto più comune di quanto una certa politica non vorrebbe.

A Teheran non ho avuto l’occasione di andare al cinema. Ma non dubito che una sala cinematografica sia a suo modo un luogo di resistenza, come già lo è una libreria internazionale. Così anche nei posti più critici, la cultura sa ergersi come una roccia, più solida delle ideologie e delle organizzazioni politiche di opposizione.

Ma il luogo magico di questa resistenza resta distante da noi. Lo intercettiamo da spettatori, da utilizzatori finali. Invece lo si dovrebbe incontrare nelle sue fasi inziali, quelle più difficili per chi lotta: la produzione, la creazione, la distribuzione.

Noi che dall’Iran non siamo lontani, e che del Mediterraneo siamo piena parte, dovremmo pensare non solo a contemplare un film, ma esserne partecipi, consapevoli del ruolo che questa cultura può svolgere, per restituire la dignità di un popolo, in modo ben più efficace di altre azioni (un “centro sperimentale di cinematografia mediterranea”? Società di produzione miste? Premi dedicati al cinema medio-orientale in festival “mediterranei” come Venezia o Cannes? Un utilizzo più diffuso degli aiuti UE che pure ci sono? – il catalogo del fattibile è lungo, quello del finora fatto assai stringato). Incontri e investimenti - altro che limitarsi ad acquistare un dvd a Teheran o pagare un biglietto a Milano. Perché se lo spirito e l’impegno che anima il cinema persiano si diffondesse anche nel Maghreb e nel Mashrek, sarà “molto più bello” andare al cinema per tutti noi, a Roma e al Cairo, a Teheran e a Beirut, a Parigi e a Lampedusa.

Niccolò Rinaldi


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