top of page

BREXIT: IL 31 GENNAIO PERDIAMO LONDRA MA CI TENIAMO SHAKESPEARE - Huffington Post, 29 gennaio 2020


Non bastarono due scomuniche a Enrico VIII e una Elisabetta I a far recedere Londra dallo scisma anglicano, e non sono servite le più funeste previsioni sull’impatto economico e sulla vita quotidiana dei sudditi di sua maestà a ribaltare l’esito del referendum sul Brexit. Anzi, tre anni di quasi impossibilità a districare il destino della Gran Bretagna da quello dell’Europa e di continui dibattiti, hanno confermato la fatale attrazione dello strappo, quasi una vertigine. Non si potrà più sostenere che gli elettori britannici abbiano scelto con disinformazione o emotività, mentre dobbiamo prendere atto che l’Unione Europea ha esercitato una capacità minima di seduzione, incapace di proporsi ai britannici come un destino comune e una protezione rispetto alle sfide globali.

Con queste premesse, il negoziato della separazione sarà ancora più complesso e ci finirà dentro quasi tutto, ma almeno non si occuperà di ciò che potrebbe essere oggetto di una parodia: la sterminata cultura britannica, secolare linfa per il resto del continente, resta nel patrimonio europeo o andrà considerata sotto sovranità inglese? Come la mettiamo ad esempio con George Orwell, che europeista convinto andò volontario a combattere in Spagna e che col suo fiuto distopico in “1984” aveva assegnato la Gran Bretagna al mega-stato dell’Oceania, composto anche dalle Americhe, dal Sudafrica e dall’Australia, contrapponendolo all’Eurasia indo-araba-europea? Ma soprattutto, tra i mille esempi possibili, al momento del distacco ci preme il destino del più grande, del più inglese e del più applaudito cosmopolita: di William Shakespeare.

Forse non sono domande così peregrine, in un’Europa che rimette in discussione dopo decenni perfino la libertà di circolazione dei suoi cittadini. Lo spazio della cultura, del pensiero, della creazione, è stato il primo spazio comune europeo – artisti e letterati di norma non hanno avuto bisogno di trattati per far viaggiare liberamente le loro idee. Ciononostante la stagione invita alla prudenza, al punto che è bene affermare a voce alta che Brexit o no, l’emblema della lingua inglese appartiene molto più all’intera Europa che non a una qualsiasi letteratura nazionale. Andiamo anche oltre: nel dibattito pro o contro l’Europa che tanto ha infiammato oltremanica (e anche qua), Shakespeare non avrebbe avuto dubbi su come schierarsi, tanto che osiamo considerare che il più grande scrittore inglese è stato uno dei primi padri dell’idea di Europa unita.

“Europa” è un termine che quasi non figura nel corpo delle opere del bardo, ma non se ne avverte il bisogno. Perché Shakespeare la libertà di circolazione la teorizza in ogni sua opera, dislocando personaggi e scene con la disinvoltura di chi disdegna le frontiere, spaziando dalla Scozia al Mediterraneo, e senza gerarchie, da vero visionario dell’organizzazione della storia, perché ogni località è suo modo il centro e mai periferia. Questa visione geografica va oltre l’Europa del Rinascimento, giunge all’Asia Minore di Cipro, ai Balcani dell’Illiria, all’Egitto romano. È una geografia dell’intelligenza, che è una sola per tutta l’Europa – per restare al solo Hamlet, ci si sposta dall’Inghilterra alla Polonia, tutto finisce a Elsinore, e c’è uno sguardo speciale verso i centri del sapere di Parigi, dove va Laerte, e di Wittenberg dove Amleto vuole andare a studiare all’università (e Amleto, e Shakespeare, non indica a caso Wittenberg).

Con questo sguardo trans-europeo, Shakespeare disdegna il nazionalismo, non cade mai in un solo accenno sciovinistico, e perfino nell’Enrico V la guerra tra inglesi e francesi è tratteggiata all’interno di un rispetto e perfino simpatia reciproci. Adora l’Italia, ma al contrario di altri artisti dell’epoca non mostra alcun complesso di inferiorità al suo cospetto. Reperisce le fonti per le sue trame indistintamente da saghe nordiche, Plutarco o storici romani, umanisti italiani o resoconti dei primi navigatori oceanici – e non vi sono fonti minori e principali, tutte hanno eguale dignità, perché considera uno il sapere primario dell’Europa col quale esercitare l’intelligenza e lo spirito di osservazione.

Shakespeare non evoca mai un’Europa istituzionale unita. Ma, altroché, traccia una mappa del potere che è una per tutto il continente, un potere che ai suoi tempi non doveva fronteggiare le attuali “sfide globali”, ma che si confrontava con una medesima problematica del governo e della lotta, del tutto transnazionali. Come in Machiavelli, nelle sue opere c’è una verità effettuale, che delinea uno solo spazio politico europeo, soggetto alle stesse leggi, ambizioni, cadute.

E prima ancora della sfera pubblica, Shakespeare conosce solo una categoria umana, quella di un “homo europeo”, che non è migliore o peggiore a nord o a sud, ma che ovunque nel continente conosce gli stessi moti dell’animo e testimonia della stessa civiltà. E tra questi europei vi sono anche mori o ebrei - e Shakespeare anche in questo è sempre avanti di tante spanne al cospetto delle miserie politiche odierne – mai diversi etnicamente o culturalmente, ma solo in termini di responsabilità individuale. È un canone del cittadino europeo che riconosce chi è espressione di un’altra civiltà, come capita con i suoi vari personaggi africani ai quali tributa un’attenzione particolare, e come nel caso del “selvaggio” Calibano della Tempesta. A lui Shakespeare mette in bocca una battuta, rivolta al padrone bianco - “Mi hai insegnato la tua lingua e ora quello che so è come bestemmiare” - che anticipa di secoli la demolizione delle politiche colonialiste e di assimilazione paternalistica.

Inesauribile, dell’europeismo di Shakespeare molto altro potremmo dire: si pensi all’ideologia della famiglia, al valore cruciale del viaggio di studio come elemento forgiante dell’identità (antesignano dell’Erasmus?), alla laicità di cui è intrisa la società, al suo intrecciare continuamente la vicenda umana con la natura, le stagioni, i boschi – sorta di coscienza ambientalista sovranazionale. E ancora di più Shakespeare è amato da tutti per il valore immenso e unificante che egli attribuisce all’arte di vivere bene: quell’Europa davvero unita fatta di buona tavola, di umorismo, di feste, di sessualità felice, di allegria come stato d’animo per superare le crisi – “buone pratiche” che non hanno mai conosciuto frontiere.

In breve, il Regno Unito lascia l’Unione Europea, Ma ci lascia, patrimonio di tutti, William Shakespeare. Verso di lui è debitore ogni europeo, oltremanica o nel continente; e lui, proprio lui, avremmo dovuto coinvolgere nella campagna referendaria e poi elettorale. Shakespeare avrebbe trovato i buoni argomenti, usato le buone parole, sfoderato metafore incantevoli, dimostrato che il suo successo è anche il successo di una visione ampia, libera e aliena dal nazionalismo – da ogni punto di vista: esistenziale, geografico, storico, politico, culturale… Ci avrebbe turbato e divertito. Mentre la politica, quella nazionalista ma anche quella europea, è purtroppo risultata superficiale e noiosa, e non si è presa nessun applauso.

Niccolò Rinaldi


Post recenti
Archivio
bottom of page