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UNA PRATICA ARCHIVIATA TROPPO IN FRETTA: IL REFERENDUM ATAC - Critica liberale/Non mollare, 17 dicem


Da anni ben più del 13% dei romani ha imprecato contro l’ATAC e i suoi disservizi. Eppure appena il 13% dei romani è andato a votare al referendum per sostenere la liberalizzazione del trasporto pubblico cittadino. Un risultato talmente striminzito che a parte ipotetici ricorsi al TAR – magari fondati, ma politicamente risibili – pare che anche gli stessi sostenitori abbiano pensato che fosse meglio che calasse il silenzio. Del resto è già calato: nessuno ne ha parlato più.

Invece, un mese dopo, vale più di una riflessione in casa liberale la mesta fine di quella che ritengo sia stata l’unica vera proposta di cambiamento nelle politiche capitoline negli ultimi anni. Di per sé, coraggiosa, ben congeniata e con valore aggiunto tutto liberal-democratico: un referendum per offrire una partecipazione decisionale diretta ai romani, applicato a un problema circoscritto, le redini dell’ATAC, ma ampiamente trasversale alle politiche cittadine – mobilità, ambiente, investimenti, trasparenza, fino alla stessa immagine di Roma. Tanto di cappello: nessuno, da molto tempo, aveva cercato di scuotere l’immobilismo capitolino mettendo al centro il cittadino e la sua capacità di scelta.


Avrebbe potuto essere una partita facile dati i recenti ultimi capolavori dell’ATAC, tra scale mobili che franano a mezzi che prendono fuoco da soli, e invece si è trasformata in un quasi trionfo dell’ATAC stessa e della sua disastrata gestione pubblica.


È stato un “boomerang liberale” che viene da lontano, effetto di ritorno di comportamenti e vicende che trascendono il caso ATAC e il tentativo referendario generoso. Ma anche anche ingenuo, perché il suo esito era scontato, date tre diffidenze di fondo radicate in buona parte dell’opinione pubblica e sulle quali il mondo liberale, radicale, repubblicano, non è affatto innocente.


1. Il sapore della parola “liberalizzazione” – in italiano.

Per decenni in Italia il pubblico occupava il mercato producendo automobili, festival canori o anche gelati. Una statalizzazione clientelare, comoda a tanti e spesso incapace di far tornare i conti e di provvedere alla qualità del prodotto. Si è reagito con il mantra della “liberalizzazione”, oppure della “privatizzazione”. Il rapporto tra i due concetti è spesso poco chiaro, e anche nel referendum ATAC sono passati i messaggi “si liberalizza, non si privatizza”, aggiungendo confusione a una confusione, italica, strutturale: si può liberalizzare davvero senza, anche, privatizzare? Si può privatizzare senza, anche, liberalizzare? Certo, si potrebbe, Ma in Italia abbiamo assistito a numerose liberalizzazioni fasulle e a simili privatizzazioni, con liberalizzazioni che si sono tradotte in nuovi monopoli privati, e privatizzazioni che si sono trasformate in nuove aziende di diritto privato ma in realtà sotto indiretto controllo pubblico. La creatività italiana è riuscita a mescolare le carte in modo tale per cui il cittadino, anche il più avveduto, non sa più riconoscere il confine tra una sfera e l’altra, e non si fida di nessuno.

L’utente finale potrà anche infischiarsene delle ambigue soluzioni giuridiche affinché tutto cambi perché niente cambi, ma guarda al sodo, alla qualità. E scuote la testa: la tragedia del ponte delle privatizzate autostrade d’Italia; la mancata altra tragedia di un pezzo del lungarno accanto al Ponte Vecchio che frana per le tubature marce e la dispersione idrica del servizio che era pubblico, è stato privatizzato, ma resta a partecipazione pubblica; l’Alitalia privatizzata dopo che lo Stato si è accollato i debiti, e mai decollata tanto che è stata posta sotto gestione commissariale di nomina governativa.

Ogni città italiana ha i suoi piccoli e grandi misteri liberazzati/privatizzati/lottizzati, in misura sufficiente da creare una cortina di opacità che ha reso questi termini sinonimi di scarsa trasparenza, complicazione, assenza di tangibili miglioramenti qualitativi e di tariffe più competitive. E buona parte del mondo liberale ha per troppo tempo taciuto su queste mistificazioni del mercato aperto, preferendo continuare a difendere a priori le “ragioni del mercato” e senza mai denunciare gli abusi commessi sotto l’egida, per molti liberali intoccabile, delle “liberalizzazioni” – abusi che in diversi casi farebbero rimpiangere una sana gestione pubblica ancien régime.


2. Referendum – a che pro?

Bello lo strumento di maggiore democrazia diretta. Ma solo consultivo quello sull’ATAC, quando perfino per quelli abrogativi non sempre i risultati sono poi rispettati – come è accaduto per quello sull’acqua pubblica e in parte con quello sul nucleare del 1987, col risultato scontato che l’intero istituto perde di credibilità. Anche su queste violazioni della volontà popolare, una parte del mondo liberal-democratico, tradizionalmente favorevole al nucleare civile e alla privatizzazione dei servizi idrici, ha spesso preferito tacere. Perdendo anch’esso credibilità.


3. In partibus infedelis – un fallimento liberale?

Nelle periferie la partecipazione è stata risibile – il 9% a Tor Bella Monaca. Ai Parioli il risultato migliore – il 25%. È un mondo alla rovescia: perché sono proprio gli abitanti delle borgate a dipendere di più dal servizio pubblico. E proprio chi ha più bisogno di una liberalizzazione del trasporto pubblico non ci ha creduto. Non solo per l’ambigua liberalizzazione all’italiana, ma perché le periferie sono mondi poco frequentati da buona parte della cerchia liberale e affini. Non parlo, ancora una volta, dei proponenti – Riccardo Magi in particolare è stato un consigliere capitolino presente su tutto il territorio romano – ma della galassia politica, intellettuale, mediatica che più di altri si è fatta portavoce delle ragioni del referendum.

Un mondo più avvezzo alle sedi istituzionali, alle università, magari anche ai salotti televisivi e ai social network, un mondo percepito come quello dei benestanti e che più difficilmente si mette in discussione confrontandosi con la dura realtà della periferia – tanto quella urbana che quella più ampia dei ceti esclusi. È un terreno difficile, che si apre con molte cautele, tradito da troppi e la cui fiducia si conquista solo senza improvvisazioni e con una lunga dedizione.


Quel che resta dello sfortunato referendum, è in una serie di lezioni da apprendere proprio da parte di coloro che il referendum sostenevano, affidandosi solo alla sua ragionevolezza. Non è bastato, e non basterà. Perché il “nostro amore secolare per l’Italia” deve farsi anche amore secolare per la sua parte più dissestata. E se vogliono avere voce in capitolo nella nostra società, anche i laici, tutti, devono farsi carico di questo mondo che dice di no all’ATAC liberalizzata per le stesse ragioni per le quali dice di no all’immigrazione e di no all’Europa. Un mondo che buona parte della nostra cultura non ha mai voluto interrogare e capire fino in fondo, un mondo che preferisce aspettare ore al capolinea di una sgangherata linea di autobus, confidente che alla fine il “59” arrivi, anziché rischiare che domani il “liberalizzato” non venga più fermandosi ai “quartieri dei ricchi”.

Perché è quanto è già successo: qualcuno dalle parti liberali non se ne è mai accorto, ma ce lo ricorda questo voto scontato, sconcertante, masochista. Frutto soprattutto dei limiti elitari di un certo liberalismo e delle sue contraddizioni. E frutto della paura del corpo di Roma più profondo, del suo popolo in transizione, investito in maniera così violenta dai grandi cambiamenti dell'Italia globalizzata, e di cui molti tra noi laici non abbiamo mai appeso il ritratto al centro delle nostre stanze.


Niccolò Rinaldi


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