SIERRA LEONE RESTA IN PIEDI - Solidarietà Internazionale, ottobre 2022

Freetown - Alla periferia di Freetown, in un capannone che accoglie il museo delle ferrovie del Sierra Leone, un vagone è uno dei luoghi centrali dell’intero paese. Dipinto di bianco, decorato con qualche intaglio da ebanista, la carrozza passeggeri ha le sembianze di uno strano salottino ferroviario ed era stata allestita per ospitare la regina Elisabetta in occasione di una sua visita. La monarca visitò la colonia, ormai agli sgoccioli e prossima all’indipendenza, ma per qualche ragione sul quel vagone non ci salì, e le amorevoli cure profuse per allestire quella bomboniera mobile furono frustrate. Rimase incerto il destino di quel vagone, che così conciato non poteva essere immenso nell’ordinaria circolazione dei treni del Sierra Leone, lungo l’unica linea di circa duecento chilometri, in un saliscendi costante e tra ardite curve per superare la mossa morfologia del paese. Dimenticato da qualche parte, nell’ultimo decennio del Novecento la carrozza fu travolta dalla guerra civile e come qualsiasi altro riparo disponibile divenne rifugio per gli sfollati. Fu un ufficiale del contingente inglese, appassionato di ferrovie, che si dette da fare per cercare di salvare il materiale rotabile di queste piccole ma a loro modo gloriose linee del Sierra Leone, riuscendo a ottenere dei fondi e a lanciare una campagna di restauro di una decina tra locomotive e carrozze. Ripulita, quella “reale” si è reincarnata nella nuova storia del paese, una reliquia di un passato tradito, un’ambizione mancata, e ora una promessa di attrazione turistica in un museo di cui, anche a chiedere agli abitanti del vicinato, pochi sanno qualcosa.
Freetown ha del resto ben altri problemi che giocare al ferromodellismo a dimensioni naturali. In poco più di quindici anni, la città è risorta rapidamente dagli orrori di una guerra che fece circa 60.000 morti e due milioni e mezzo tra rifugiati e sfollati, si affaccia felice sul mare e soffre del classico catalogo delle città africane che crescono in fretta. L’aria è MOLTO inquinata, lo sporco è TANTO, il traffico ESAGERATO, il mare inteso come spiaggia è per lo più una lontana citazione. È una città strana, una rara capitale il cui aeroporto dista almeno tre ore in auto, dove la storia ha lasciato qualche pregevole vestigia, come l’arco attraverso il quale gli schiavi venivano avviati all’imbarco. Una città con un mercato sterminato che occupa interi isolati, dove mi taglio i capelli in un bugigattolo che si chiama “Gaza barbershop”, senza acqua, senza luce, senza bancone, dove sotto ai piedi trovo un vecchio computer portatile (il taglio discretamente pessimo mi ha fatto rimpiangere l’eccessiva fiducia verso un locale il cui aspetto in effetti già scoraggiava). Una città che ha per simbolo un albero gigantesco in mezzo al traffico, il “Cotton Tree”, un kapok di oltre trenta metri, che per secoli ha marcato gli eventi della città e che oggi troneggia tra il Museo Nazionale, la Corte Suprema e una chiesa, una delle tante, dove m’intrufolo brevemente durante un matrimonio. Vi resto abbagliato (svettano le tonalità oro) dall’eleganza e dalla bellezza di queste ragazze e di questi ragazzi che ripropongono la solita lezione dell’Africa: uno sguardo forte e sorridente, una sorta di fiducia incondizionata verso il futuro, malgrado tutto.
Perché qui si scoppia di vita. Anche durante il Covid. E se per arrivare e uscire dall’aeroporto sono necessari tre test, e un altro per rientrare nell’aeroporto, che viene meticolosamente verificato già all’ingresso del parcheggio e poi altre tre volte, la strada della Sierra Leone suggerisce che la tanto paventata ecatombe africana da pandemia non c’è stata. Le folle si riversano per strada in un pigia pigia senza paura, e i colleghi che vivono qua assicurano che il numero dei casi è irrisorio, in linea con quello dei vaccinati. Anche un giovane medico, responsabile del laboratorio dovemi sottopongo a un test, rassicura e dà la sua spiegazione: come nel resto dell’Africa nera, la popolazione qui è giovane, esposta sin dalla nascita a batteri e virus di vario genere, e capace di sviluppare anticorpi individuali che nei confronti del Covid si sono mostrati efficaci. E costà un vaccino, per molti abbasserebbe difese personali altrimenti forti.
Laicamente non mi esprimo. Ma constato la visione offerta dalla piazza di Freetown, o da una assai più tranquilla cittadina immersa nel verde come Port Loko: non vi è parvenza di una pandemia, e la preoccupazione dei ragazzi più che il distanziamento pare essere il risultato del Chelsea o dell’Arsenal – perché qua le telecronache del campionato inglese occupano interi fine settimana– o sfilare in una qualche corteo, ché ve ne sono di frequenti, in genere celebrativi di qualche avvenimento anche minore, come la consegna delle pagelle o una festa familiare.
Sia quel che sia, il Sierra Leone è – forse una metafora dell’Africa - un paese che resta in piedi. Afflitto da una guerra civile feroce che all’epoca pareva interminabile, colpito da corruzione e dal gioco dei mercanti delle risorse naturali, circondato da vicini non sempre facili, e avvolto dalla danza macabra del Covid, dimostra una capacità di resistenza e un buon umore di cui sono capaci solo popoli che vengono da lontano.
Anche durante la guerra civile il Sierra Leone si aggrappò alla sua storia. Nonostante le folle in fuga, a Freetown non si allestì nessun campo profughi, perché l’intera città cercò di accogliere i nuovi arrivati. E gli uomini che si organizzavano in milizie di autodifesa come i kamajor, reinterpretarono antichi riti di iniziazione, costumi e magie per affrontare il combattimento con maggiore forza e con la protezione di una tradizione antica.
Così, tra l’aria malsana di Freetown, il grigioblù del mare e il verde dell’interno, vive questa gente, più forte di una pandemia e di un vaccino, più sorridente di uno sgarbo di una regina o dell’incubo di una lunga guerra. Gente i cui giovani, quando si sposano vicini al Cotton Tree, cantano in chiesa “dammi coraggio quando il mondo è brutale, continua ad amarmi anche se il mondo è duro, salta e canta con me in tutto ciò che faccio, lasciami viaggiare con te”.
Niccolò Rinaldi