GLI EQUILIBRISMI DI VANUATU - Solidarietà internazionale, ottobre 2020

Uno sviluppo lento, fedele al ritmo di una vita insulare, alle sue liturgie sociali. Vanuatu è anche inserita nella lista delle destinazioni turisti che, paradiso per subacquei. Ha creato un’asse forte con la Cina. Stabilità sociale ma con contraddizioni
Port Vila.- Vanuatu ha già un nome così, col suo ostico dittongo, che non si sa da che parte prendere, è di quegli stati che un tempo erano luoghi talmente remoti da essere come velati da una sembianza di inaccessibilità, mete per terrapiattisti, e ancora oggi chi saprebbe dirne la capitale, riconoscerne la bandiera, collocarlo nella carta geografica? In qualche decennio anche il Pacifico si è spostato, collocandosi più al centro della carta del mondo, attirando attenzioni e capitali, “connettendo” questa periferia della terra, questo oceano immenso, questi stati dispersi in tante isole.
Come i suoi vicini (che vicini poi non sono, date le distanze tra i vari arcipelaghi), anche Vanuatu probabilmente non chiedeva altro che di essere lasciato al suo lento sviluppo, fedele al ritmo di una vita insulare, alle sue liturgie sociali. Non è mai esistita un’Arcadia del Pacifico, un mondo bucolico e incontaminato, nemmeno a credere agli scritti di Stevenson o genere Papalagi. Eppure qualcosa persiste, come le distese di palme e l’inesauribile utilizzo che ancora oggi, come secoli fa, viene fatta di queste piante divine da parte degli abitanti, pionieri dell’economia circolare che tutto ricicla. Quello che della palma scriveva Melville in Omoo è ancora vero e vale la pena citarlo: “I doni che essa elargisce sono incalcolabili. Anno dopo anno, l’indigeno riposa sotto la sua ombra; ne consuma i frutti, sotto forma sia di alimento solido, sia di bevanda; ne usa i rami per ricoprire il tetto e li intreccia in cesti che impiega per portare il cibo; si rinfresca con un ventaglio formato mediante le foglie giovani; le foglie più grandi divengono un copricapo con cui egli si ripara dal sole. Si veste talvolta con la sostanza, simile a un tessuto, che si avvolge attorno alla base dei peduncoli. Le noci più grandi, assottigliate e levigate, forniscono un magnifico boccale; quelle più piccole, fornelli per le pipe; con i gusci secchi accende il fuoco; le fibre vengono attorcigliate per formare lenze e gomene per la canoa; l’indigeno cura le ferite con u balsamo ricavato dal succo della noce di cocco e imbalsama i morti con l’olio ricavato dalla polpa del frutto. Anche lo stesso nobile tronco è ben lontano dall’essere inutile. Segato per farne travi, sostiene la dimora dell’isolano; trasformato in carbone, gli cuoce il cibo… Egli muove la canoa nell’acqua con una pagaia di quel legno, e combatte con mazze e lance dello stesso materiale. Cosicché colui che si limita a mettere nel terreno una di queste noci può a buon ragione esser certo di aver conferito, a se stesso e alla posterità, un beneficio molto maggiore, rispetto a quanto fatto, in climi meno favoriti, da un uomo in tutta una vita di lavoro.”
È una descrizione onesta. Può sorprendere che oggi, quasi due secoli dopo, a Vanuatu l’importanza quotidiana della palma sia restata quasi intatta. Anzi, al catalogo delle sue virtù stilato da Melville, si è aggiunto l’elemento decorativo e attrattivo che questa dinoccolata pianta esercita nell’industria turistica – il “palm resort”, la fotografia iconica di spiaggia & palma, il lungomare alberato di Porto Vila, i cestini artigianali al mercato dei pochi souvenir locali. Tutto pare avere bisogno della palma.
Ma sotto queste foglie indolenti e generose, non c’è più l’aria di un tempo. Perché nel torpore delle isole pacifiche, Vanuatu è riuscita a marcare due svolte: inserirsi nella lista delle destinazioni turistiche che piacciono, con voli regolari, rete di alberghi, paradisi per subacquei; e creare un’asse forte con la Cina. I due aspetti sono diventati uno, da quando Pechino ha inserito Vanuatu nella lista dei paesi “autorizzati” per i propri turisti, così che oggi arrivano a frotte – o almeno arrivavano fino all’ante-Covid – in gruppi disciplinati che costituiscono un’isola umana all’interno delle isole dell’arcipelago, perché nemmeno nelle rilassate spiagge del Pacifico le comitive cinesi si aprono e rompono i loro ranghi serrati.
È un’attenzione che Vanuatu si è conquistata schierandosi sin dalle prime sue mosse in politica estera, dopo la tardiva indipendenza nel 1982, a fianco di Pechino nella competizione diplomatica con Taipei, che proprio nel Pacifico ha il suo principale terreno di battaglia. Una scelta non sempre incontrastata, tanto che nel 2004, per qualche mese e in virtù di un azzardo dell’allora primo ministro Rialuth Serge Vohor, durante una sua visita segreta a Taipei, Vanuatu ha riconosciuto Taiwan anziché la Cina Popolare. La forzatura divenne lo scaldalo del piccolo paese, e comportò, tra voti in parlamento e ricorsi vari in giustizia, la crisi del governo. Da allora, Vohor è rimasto uno dei politici più prominenti a Vanuatu, spesso ministro, spesso capo dell’opposizione, a volte in carcere per accuse di malversazioni, ma comunque sempre critico della sudditanza di Vanuatu verso Pechino, che considera un pericolo mortale per la libertà dell’isola.
È una voce che fa fatica ad essere ascoltata, contrastata anche dalla ricezione a Vanuatu della televisione e della radio, in lingua locale, della Cina comunista. Due recenti episodi, del 2019, hanno purtroppo confermato le ingerenze crescenti. Sei cittadini di Vanuatu con passaporto anche cinese, sono stati deportati in Cina per frodi legati a internet; ancora più grave, pochi mesi fa, il direttore del Daily Post, non ha potuto fare ritorno a Vanuatu al termine di un viaggio all’estero perché accusato dal primo ministro di mettere in cattiva luce nei suoi editoriali i legami crescenti di Vanuatu con Pechino.
Dietro questi abusi, si agita lo spettro della costruzione di una base militare cinese a Vanuatu - vicina all’Australia, alle spalle del Giappone e di Taiwan, non lontano nemmeno dalle isole pacifiche della Francia e degli Stati Uniti. Per ora si tratta solo di un nuovo porto, a Espiritu Santu, ma l’Australia lo ha già dichiarato ad alta voce: quei moli hanno un senso solo per essere convertiti rapidamente in base navale militare.
Arriveranno le corvette verosimilmente, e intanto di sicuro sono arrivati gli operai e i tecnici cinesi, perché lo sviluppo del risorse umane non è una priorità di Pechino, che a fronte di tanti lavoratori che esporta, concede col contagocce le borse di studio universitarie per i giovani di Vanuatu. Quanto all’interscambio commerciale la Cina esporta di tutto: macchinari, medicine, abbigliamento, cibo, rafforzando la dipendenza…
A Vanuatu restano le palme. E alcune piaghe sociali di antica data, perché in molte di queste casette dall’aspetto paradisiaco, si consumano violenze domestiche di ogni tipo – sessuale, fisica, finanziaria, psicologica – favorite dall’alcolismo. Ma Vanuatu non è nemmeno un inferno, è solo un piccolo insieme di piccole isole che cercano di andare avanti in giochi più grandi di loro e in una società che cambia e non cambia: le donne si sostengono tra di loro, le chiese locali resistono come centro di aggregazione e di coesione, ii giovani non stravolgono ancora la vita dei loro anziani, i governi si alternano tra una crisi e l’altra, e anche dalla vicina e possente Cina ci si illude di poter prendere solo quello che conviene.
Insomma, la bussola indica varie direzioni: stabilità sociale ma con contraddizioni, senso di “a parte” ed esposizione alle tensioni globali, antiche e nuove risorse, marginalità che diventa centralità.
Qua si fu colonizzati simultaneamente da inglesi e francesi, in un condominio, e a certi equilibrismi si è abituati – e si pensa di andare avanti così, con nuovi equilibrismi per nuove epoche. Manca un cantore di queste isole, un punto di riferimento come a loro modo lo sono Walcott o Naipaul in alcune parti dei Caraibi. Ma ci pensa un maestro di scuola a chiudere con un tocco di epica locale, dicendomi: “Sono venuti gli europei di ogni tipo, e gli americani, le cui truppe durante la guerra furono anche più numerosi degli indigeni, e i missionari, e ora i cinesi. Ma alla fine, conclude il maestro, solo noi assomigliamo a noi stessi, come l’acqua dell’oceano, che assomiglia solo all’acqua”.
Niccolò Rinaldi