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PIETER BRUEGEL, L’ANTICO MAESTRO LIBERALE - Critica liberale/Non mollare, 2 dicembre 2019





Nel loro vasto “Arte della libertà”, lo studio dedicato al ruolo di cinquanta pittori nel definire valori ed estetica del liberalismo, Carruba e Caroli avevano ragione a indicare quanto Pieter Bruegel (il Vecchio, s’intende) abbia diffuso l’idea di “uguaglianza” elevandola a uno dei protagonisti della sua pittura. Il “Trionfo della Morte”, sul quale in particolare i due autori si soffermano, è ad esempio il manifesto di una società nella quale ricchi e potenti, clero e nobili, finiscono nella polvere di un giudizio ineluttabile e senza sconti, un destino che va in culo a privilegi e rendite (per dirla con un linguaggio al quale Bruegel ricorreva nella sua irriverenza capace di strattoni alle buone maniere).

“Arte della libertà” è del resto un lavoro che spiega agli europei – la traduzione inglese, con una prefazione di Graham Watson, fu presentata anni fa anche al Parlamento Europeo - quanto i principi liberaldemocratici abbiano beneficato nella loro affermazione, nel loro divenire società, del contributo a determinante e a volte insospettabile di alcuni artisti (pittori e scultori, ma in anni più vicini anche cantanti o cineasti). A cominciare da Bruegel, questo maestro fiammingo ed europeo, laico e religioso, umano e metafisico, che in questi mesi è al centro di una decina di mostre, oltre a convegni, concerti, passeggiate tematiche, che Bruxelles gli dedica in occasione dei 450 anni della sua morte. Una ghirlanda di occasioni che induce a tornare costantemente su quanto Bruegel abbia avuto, suo malgrado data l’epoca in cui visse, un ruolo nell’aprire lo spazio limitato e al tempo stesso sconfinato della tela a una nuova visione del mondo, di ciò che esso contiene. E i suoi quadri diventano mass-media anti litteram, veicolo di una grande rivoluzione liberale.


Nel successo di pubblico degli omaggi bruxellesi, una fetta importante è dovuta ai giovani, spesso refrattari a retrospettive e celebrazioni di personaggi del passato. Bruegel ha quello che serve per continuare a piacere: ci si perde volentieri nel contemplare la miriade di personaggi che animano proverbi popolari, vita campestre, combattimenti tra gioiosi e uggiosi, cantieri e porti. Ma il “pittoresco” di una moltitudine animata, spiega solo in piccola parte perché Bruegel riesce a catturare lo sguardo, ancora oggi come ai suoi tempi (i suoi quadri avevano un tale potere seduttivo che furono oggetto di numerose copie d’epoca, un laboratorio di riproduzione nel quale tutta la famiglia s’impegnò e che ancora può confondere in termini di attribuzioni certe).

La capacità di Bruegel di catturare lo sguardo viene da più lontano, perché anche inconsapevolmente si è scossi dalla sua novità, dal quel riuscire ad annunciare un nuovo modo di osservare e valutare il mondo e la storia degli uomini, un modo, finalmente, liberale.


  1. Una prima innovazione di Bruegel è il punto di osservazione: la messa in scena di un quadro tradizionale è stravolta, lo spettatore non è posto davanti, ma quasi sempre sopra: gode di una vista ampia, che permette una visione di insieme, inserita in un paesaggio, in un clima, in un villaggio dove accadono simultaneamente molte altre cose. Bruegel per la prima volta non impone un unico punto di vista, e sistemandosi col suo cavalletto più in alto mette anche noi nella possibilità di scegliere, di valutare, di apprezzare un mondo plurale.

  2. È un punto di vista che ricorda una tecnica cinematografica, tanto moderno che si è detto che se Bruegel fosse nato ai nostri tempi sarebbe senz’altro stato un cineasta. Non è un caso che un suo quadro, L’ascesa al calvario, è diventato un film - The Mill & the Cross, di Gibson & Majewski, presentato alla Biennale di Venezia e poi nelle sale. I personaggi della tela di Bruegel prendono vita, e con le stesse sembianze e nello stesso paesaggio, proseguono quel percorso individuale che nel quadro è avviato. Con gli strumenti a sua disposizione, Bruegel pare anticipare una narrazione video, dipingendo nella stesso quadro una sequenza di storie o un episodio nella sua dinamicità, come nella Parabola dei ciechi. È una tecnica che aiuta l’osservatore di oggi, perché egli ci ritrova rapidità, continua sorpresa del dettaglio, possibilità di cambiare particolare osservato. Ma non è solo tecnica, è anche un’indicazione morale: Bruegel invita a non essere passivi, a prestare attenzione, a farsi una propria opinione.

  3. Sono le premesse perché l’attenzione non si focalizzi sull’evento protagonista (come una crocifissione), ma si diffonda sull’intera comunità. Il contesto diventa così altrettanto importante. La strage degli innocenti, la caduta di Icaro, la morte di Saul, la folgorazione di san Paolo, non sono più storie sotto il monopolio dell’eroe, ma diventano parte di una collettività. Tuttavia questa collettività è tutt’altro che il corpo unico di una massa indistinta: al suo interno ognuno ha la sua personalità, il suo ruolo. È un’altra delle armi seduttrici di Bruegel: la volontà di dotare ogni personaggio, anche apparentemente minore, di una sua dignità. Contadini e commercianti, ricchi e poveri, bambini e anziani, donne e uomini, sono trattaticon eguaglianzae s’industriano in una loro occupazione, hanno ciascuno qualcosa da dire, costruiscono con tenacia il loro presente in mille modalità diverse. Santi, cardinali, condottieri e monarchi, vengono disarcionati e messi sullo stesso piano del cittadino. Un intero corpo sociale – artigiani, mercanti, agricoltori – ottiene una cittadinanza artistica e anche politica, sono loro a mandare avanti il mondo. L’insieme è costituito da mille individualità e l’individuo viene finalmente liberato, ottiene il suo posto nella rappresentazione, non è più contorno decorativo o assenza, è chiamato a esprimere il suo destino.

  4. Le conseguenze di questo approccio sono devastanti, soprattutto per l’epoca. Lo stesso fatto religioso, tutt’altro che sminuito, è incorporato nella storia terrena. La storia diventa laica, messa in moto dagli uomini, in difficile equilibrio tra volontà dei singoli e processi collettivi – entrambe le dimensioni sono così ben rappresentate da Bruegel. Il mulino, fabbrica dell’uomo nella quale egli incontra il grano ovvero la natura, è assunto a grande ingranaggio della storia. Non si vede più la provvidenza.

  5. Questa storia finalmente secolarizzata pare il manifesto di un capitalismo virtuoso. Gli attori di un immenso spettacolo di attività economiche prendono il sopravvento sui tradizionali signori della pittura dell’epoca – sacerdoti e militari. Nella Torre di Babele, ad esempio, l’immensa costruzione incompiuta occupa il ruolo centrale del quadro, ma i veri protagonisti sono gli uomini al lavoro, e lo sono in almeno tre settori distinti: architetti e muratori nel complesso cantiere, particolareggiato di macchinari e utensili edili; contadini anche loro all’opera, nei vasti e ordinati appezzamenti che circondano la torre; marinai e mercanti nel porto ai piedi della torre, con moli, magazzini, partenze e arrivi. Nel quadro c’è anche il monarca che ha ordinato i lavori, ma come sempre in Bruegel è una figura piccola, in un angolo dello spazio. Lui e il suo sogno delirante esistono solo perché esiste un’imprenditorialità umana che la fa da padrona ovunque si guardi, un attivismo economico che domanda spazio e libertà.

  6. Un altro protagonista domina tutti i quadri di Bruegel: il paesaggio. Non è mai solo sfondo, è materia viva della storia. Montagne incantevoli o minacciose, elementi delle stagioni – neve, foglie, tramonti – sembrano osservare a loro volta le vicende umane, la loro storia che dal unto di vista della natura diventa quasi irrilevante, un brulichio di formiche. Il dramma di Saul occupa qualche centimetro quadrato di tela inserito in una natura maestosa e indifferente, l’olocausto di Icaro è un dettaglio nell’angolo in un quadro dominato da mare, sole, colline. La natura accoglie l’uomo e le sue effimere gioie e sventure, è più forte, è più permanente. È una natura non ancora minacciata dall’uomo, e che anzi incontra l’uomo nei tanti campi coltivati. Ma è già una natura problematica e fondamentale per l’umanità, tanto da fare di Bruegel un antesignano di una coscienza ambientalista.

  7. Bruegel visse in un’età disperata. Ai suoi tempi piacevano i supplizi pubblici dei condannati, che potevano durare anche una settimana, fino all’ultimo spasimo dell’agonia. L’occupazione generava rivolte, le rappresaglie spagnole erano d’una crudeltà oggi inimmaginabile, la caccia a chiunque fosse tacciato di eresia era spietata e arbitraria. Difficile, al contrario di un liberaldemocratico, pensare che Bruegel potesse essere, nonostante tutto, un ottimista. Il suo dipingere le vince umane non si spinge a tanto, anzi, pare proprio che ai suoi occhi l’uomo fosse tutto fuorché una creatura creata a immagine di Dio. Eppure, un po’ come Guicciardini o Machiavelli, anche Bruegel approda a quella serenità per la quale laddove il mondo è fango e nient’altro, comincia la scienza dei beni particolari, del buonumore, dell’ironia che dissacra tutto, destino dell’uomo. Il Misantropo fa la sua filippica contro l’umanità imbecille, ma non si accorge che dietro le spalle è uccellato, anzi derubato. La quaresima è un’età di assurde privazioni, ma il carnevale rende pan per focaccia. E ai massacri del tempo Bruegel rispondeva andando col suo amico Frankert alla sagre contadine, dove si mescolavano con i locali, a danzare a ad apprezzare una pinta di birra o un dolce di riso con lo zafferanno (così spesso dipinti) come qualità dell’esistenza. Quelle mutilazioni o quegli incendi di villaggi rappresentanti in modo così particolareggiato nei suoi quadri non lasciano dubbi a che Bruegel sia stato testimone oculare di tali atrocità. Bruegel non guarda mai dall’altra parte, e quando dipinge la giustizia ricorre quasi sempre a dei torturati; ma seppure in un’epoca orribile, si erge sull’assurdità del destino umano con una smorfia beffarda, con un tratto di caricatura su vittime e aguzzini. Pare volerci dire che il male si sbaglia, non solo perché non è giusto, ma perché è ridicolo al cospetto di quanto l’uomo sappia e possa fare.

  8. Ortles, grande cartografo e suo amico, pianse Bruegel con parole rivelatrici: “dipinse molte cose che non possono essere dipinte. In tutto il suo lavoro c'è sempre più materia per la riflessione che pittura”. È un ritratto sconcertante, che non approda a una chiara elaborazione: Bruegel era un credente? Era probabilmente cattolico, ma molti sono gli indizi che lo rendono simpatizzante dei protestanti; era un ribelle, forse addirittura un eretico, ma restò sempre dietro la sua tela. Era un filosofo, un teologo, oppure un giocoliere? Si avvicina più a Shakespeare o a Rabelais, a Erasmo o a Machiavelli? Nella sua opera ci sono elementi in tutte le direzioni, o se si preferisce tutto è sfuggente. Osserviamo i suoi quadri come il lavoro di una mente che si è sforzata di investigare la civiltà dell’uomo senza dogmi, senza conclusioni definitive, con uno spirito di libertà, provocante e senza complessi di inferiorità rispetto a pensieri dominanti. Alieno ai cortigiani e a chi si metteva al riparo di potenti o ideologie in quell’epoca precaria, pare dire – proprio come Gobetti - “che ho a che fare io con gli schiavi?”. Bruegel assisteva alla storia del suo tempo, con l’esercizio di un’intelligenza libera, irrequieta e mai domata; usava pennello e tavolozza come altri avrebbero usato la penna o la spada. Cercava di orientarsi in questo mondo con un atteggiamento etico, che dalle azioni dell’uomo si estendeva perfino al paesaggio. E questa sua bellezza plasmata dal lato morale, era ed è la premessa di tutto, la premessa di ogni redenzione dalle miserie dell’oppressione nelle sue mille forme.

Niccolò Rinaldi


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