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I MURI DI KABUL - Solidarietà internazionale, agosto 2019


Kabul. - Quando ancora si poteva, seppure con le dovute cautele, camminare per le strade di Kabul, mi ritrovavo di fronte alla misera porta di una casa o al banchetto colmo di pane appena cotto, e come tutti potevo riconoscere i semplici tratti di una città dell’Asia centrale, la sua gente, il suo doloroso ma tenace tessuto sociale. In quella architettura senza pretese si vedeva all’opera un’umanità impegnata nei suoi secolari riti quotidiani, e dall’una e dall’altra si coglieva lo spirito di una civiltà nella sua rappresentazione attuale. Lo imparai a Dakar, quando andai a scrivere la tesi di laurea sull’economia popolare urbana, ovvero sui mille lavori della strada, studiando quanto i veri protagonisti non erano i mestieri e i loro artefici, ma lo spazio che li accoglieva, l’anonima e gloriosa “via pubblica”. Bastava soffermarvisi qualche minuto e tutto si rivelava, tutto si decideva, tutto diveniva chiaro, come scriveva Whitman: “Oh strada pubblica, tu ti esprimi meglio di quanto io esprima me stesso…”. Il viaggiatore, al cospetto con quelle pietre fatte della stessa materia degli abitanti, poteva dirsi compiuto nel cogliere quel che basta di sostanza formativa, si sentiva arrivato.

Del resto, che un edificio sia “bello” o “importante”, ha un’importanza molto relativa, l’importante è che sia riconosciuto nella sua funzione vitale, che animi la città; altrimenti ha esaurito la sua funzione e tanto vale demolirlo. Il viaggiatore, dunque, diventa lui stesso in un certo modo un costruttore o un demolitore – dipende dal suo sguardo, o meglio da come la città e la sua architettura si pongono di fronte al suo sguardo.


È l’antica lezione di Firenze o di Roma, e di tutte le città d’arte, dove le strade parlano e plasmano chi ci cresce, chi ci sta, dove i palazzi si distinguono tra quelli che rispettano la città e quelli ingombranti, indifferenti; è la lezione della doppia ringhiera intorno alle fontane di Piazza Navona, tale da potercisi sedere a cavalcioni - sarà poco ortodosso, ma così la separazione è annientata, la fontana invita la popolazione; idem per il selciato di piazza Santa Croce sempre a Firenze, dove si giocava e si gioca al calcio storico, ma con un dimensione ideale ancora oggi per partitelle serali tra i ragazzi del quartiere.


Firenze, come molte città dell’Asia centrale (molto meno accadeva per quelle arabe, mercati più aperte), era dotata delle sue mura medievali, ancora visibili per brevi tratti nell’Oltrarno, ancora leggibili nelle antiche carte e perfino in parte dell’attuale toponomastica. Ma le mura sono state rasate al suolo un po’ dappertutto, questione di aprire i viali della neo-capitale del Poggi a Firenze, di ammodernare i piani urbanistici, magari perfino di speculare. Dove sono rimaste, sono orpelli storici che appartengono alla categoria del pittoresco, come a Gerusalemme, a Lucca, a Khiva. L’età della globalizzazione si presta male alla preservazione delle mura urbane, che magari trovano il revival ai confini nazionali – Ungheria, Stati Uniti, Israele, contro i nuovi “invasori”, non armati ma poveri.


La storia ha le sue eccezioni che confermano la regola. Vale anche per interi popoli, popoli in controtendenza, irriducibili nella loro unicità. Ad esempio, zingaro e muro materiale (sostituito talvolta da un muro culturale), sono concetti destinati a un’incompatibilità identitaria – e bisognerebbe tenerne conto in questi anni di linciaggio mediatico e politico contro i nostri nomadi. Così la Kabul di questi ultimissimi anni si presta a un esperimento politico, ancor prima che urbanistico, audace: grazie alla loro sconvolgente involuzione architettonica, le istituzioni afghane, la società che conta dell’Afghanistan, adottano il precetto di Lao Tse che predicava che "si può conoscere il mondo senza uscire dalla porta di casa". Sempre i taoisti teorizzavano un potere lontano e inaccessibile, così da scoraggiarne l’intervento. È proprio il paradosso di Kabul, è la Kabul d’oggi.


La strada dei quartieri centrali di questa capitale sempre fuori dall’ordinario, è oggi velata da chilometri e chilometri di alte mura di protezione che si frappongono tra i palazzi del potere – caserme, ministeri, ambasciate, ma sempre più anche scuole, ospedali, moschee, perfino ristoranti, centri commerciali, case private. Mura alte almeno otto metri, e anche di più. Mura di cemento armato, spesse e bianche, a volte con un’anima interna d’acciaio, dicono. Mura a prova di bomba. La fragile assicurazione contro attentati, auto-bomba, pseudo-martiri suicidi, attacchi improvvisi di bande di miliziani talibani o di Daesh, Il muro è diventato la risposta a un’ansia collettiva, al terrore della deflagrazione, e al tempo stesso rilancia questa paura, la rende visibile quanto può esserlo un muro di cemento armato alto e impenetrabile. Il posto di blocco, con le sue garitte blindate, le sbarre d’acciaio, gli zig-zag obbligati, diventa un topolino da niente al cospetto di queste mura che si snodano lungo intere arterie, intervallate da cancelli di accesso che per la loro mole confermano l’impenetrabilità di quanto sta dietro.


L’oltre il muro è lo spazio di chi si ritrova assediato a casa propria, e ormai quasi nessuno si sottrae a questa miserevole condizione. Si vive asserragliati, alle prese con l’ultima tappa territoriale di questa antica guerra, ormai arrivata dentro la soglia di casa, una guerra che ha trasferito la difesa all’interno stesso del corpo sociale da difendere. La guerra ha colmato la misura della difesa spostandola fino alla soglia di casa.

Da privilegiato che vi avuto accesso, l’ambasciata americana è una vera cittadella iper-protetta, e da fuori non si sospetterebbe l’articolazione urbanistica di edifici, impianti sportivi, spacci, camere di sicurezza che si celano dietro agli immensi muri. Una città che si nasconde nella città e che come i treni, ne può nascondere un’altra ancor ameno visibile, procedendo per cerchi concentrici. Una mania che non risparmia nemmeno chi dovrebbe organizzare un altro tipo di difesa militare, così che al quartier generale della NATO c’è il campo di atterraggio degli elicotteri, sempre più usati per evitare i rischi degli spostamenti da e per l’aeroporto, in modo da arrivare direttamente dentro all’assedio di chi questo assedio dovrebbe spezzarlo. Funzionari, diplomatici, cooperanti, medici stranieri, tutti sono confinati nelle loro guest-house che sono altrettante piccole fortezze casa e ufficio, e guai a mettere il naso fuori. I palazzi del potere afghano – il Presidente o il governo – adottano lo stesso rito: si sta chiusi dentro, e dietro le mura. È diventata quasi una questione di status-symbol: il college dotato di mura di protezione vale di più di quello ancora sprovvisto, lo stesso per l’ospedale, eccetera.

Da fuori, la visione è allucinante, concettualmente ed esteticamente: ci si aggira tra lunghi percorsi tracciati da mura invalicabili, e se la strada resta padrona del suo traffico e di un’umanità che volente o nolente s’incontra, il rapporto con ciò che si affaccia sulla strada è impossibile, perché nessuno può sapere esattamente cosa ci sia dietro ogni tratto di queste colate di cemento verticali e tutte uguali. È un’architettura chiara, organica, un Manifesto. Il muro rende esplicita la difficoltà di accesso alle istituzioni, ma smaschera ogni ipocrisia perché rende il potere letteralmente non solo inaccessibile, ma addirittura velato. Vale nelle due direzioni: perché il responsabile di un ministero o chi per lui, non condivide più la stessa strada del cittadino per il quale lavora, una cesura di cemento si frappone, lo isola, rende più difficile il suo lavoro, rende la comunicazione ancora più complessa, forse ormai del tutto impossibile, anche perché un muro è un elemento fisico che lavora sulla mentalità e poco a poco modifica l’atteggiamento di fondo verso l’altro, isola, scoraggia, regola la vita attraverso dei compartimenti stagni. Che è esattamente il dramma della debolissima, ma a tratti straordinariamente volenterosa e coraggiosa, democrazia afghana.


Non esiste al mondo un’alra città così, neppure Baghdad o Mogadiscio. Come sempre in Afghanistan “si esagera”. Nessuno ricorda più come esattamente si è arrivati a un tale stravolgimento urbanistico, chi ha cominciato, quale sia stata la riflessione che su una giustificazione oggettiva di maggiore sicurezza ha modificato la stessa natura della città e delle sue istituzioni, alterandone perfino la legittimità. Non si trovano nemmeno analisi compiute dell’impatto antropologico di questa modifica genetica di una capitale, tantomeno dei suoi costi. Ma al capogiro per questa immensa costruzione da muro, corrisponde il capogiro delle spese, per quanto approssimative. “Per dieci metri di muro di protezione bisogna calcolare almeno 28.000 dollari”, assicura un funzionario internazionale. “Bisogna tenere conto che il cemento spesso viene importato, va trasportato fino a qui, che i cantieri sono protetti da personale armato, che i mezzi tecnici e le risorse sono limitate e dunque costano, che pochi sono davvero in questo business per ora ancora piuttosto chiuso”.

Nessuno sembra aver trovato un’alternativa migliore, finora. E per chi lucra su questo colossale affare, è bene non trovarla, perché questi chilometri di mura permettono tante cose: di guadagnare facile, di provvedere a una qualche effettiva sicurezza, di tagliare i ponti tra popolazione e Palazzo e così indebolire ulteriormente il già difficile tentativo di salvare il paese.


Kabul resta così a combattere con i suoi demoni e la sua storia recente, in una relazione corpo a corpo con la materia dura delle sue nuove mura che continuano a sorgere come funghi, mura che affermano un’inerzia nella loro misteriosa continuità, l’inerzia di una storia che non vuole saperne di concludersi, tantomeno con un lieto fine. L’inerzia della kafkiana attesa alle porte della Legge, custodita dal Guardiano che non permette di varcarne il muro.

Gli afghani aspettano di avervi accesso, aspettano all’ombra di queste protezioni che gli negano la città, perché un muro è anche una storia di ombre. Ma a differenza di quelle dell’Oltrarno fiorentino vicino a Boboli, non è ai piedi di queste mura che ci si mette al riparo dal sole. Perché a Kabul, dopo che sono cambiati il cielo da cui piovono razzi, la strada riempitasi di trappole, la luce ormai annebbiata dall’insopportabile inquinamento, anche l’ombra non è più la stessa, è diventate unica. Delineate da questi muri, proiettate sulla strada, le nuove ombre della città.


Niccolò Rinaldi


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