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NOTTE A GAZA, "NON SERVE, MA SCRIVI" - Algebar, ottobre 2018


Tra i pochi libri che valer la pena portarsi a Gaza ci sono soprattutto poesie. Che so, leggere versi così:


“Sa che attesa è misura dei morti

et hiems transit, e nulla aspetta.

Ricorda solo volti di bambini.

Pazienza ormai la porta, antica versta.”


E’ un frammento di Cristina Alziati, che a Gaza non è mai stata – quasi nessuno è mai stato davvero a Gaza, a nemmeno un centinaio di chilometri dai confini dell’Unione Europea, eppure pare Marte. Ma sono le poche parole delle poesie che mi hanno accompagnato a Gaza in questi anni.


“Compio ora gli anni della terra offesa. “


Poche parole e il tempo che trascorre cambiando quasi niente. Poi ci sono i volumi di storia, i racconti di viaggio, perfino alcuni volumi di assai illustrativi fumetti su Gaza, gli articoli, i saggi accademici. Ma sono sempre state letture per me inadeguate, perché la descrizione, l‘analisi, la “contestualizzazione”, gli articoli di giornale e i servizi televisivi, o i rapporti delle nostre missioni europee, sono sempre state altrettante rappresentazioni che restano immancabilmente dietro la realtà, che procedono per approssimazione, in perenne ritardo.


“Posso indicarti i luoghi e il giorno.

Perché la mia età ho scordato?”


Perché la mia età ho scordato, perché ho perso il mio orologio? Perché il tempo confonde a Gaza, come anche lo spazio. Non ci sono riferimenti che tengano, tutto sembra straniato, una favola sinistra. Come accade solo nei luoghi estremi, il viaggio a Gaza è un vero e proprio pezzo da letteratura fantastica, mirabilia del creato e rarità dell'esistente, un’isola indescrivibile e fuori dal tempo storico. Ci si guarda in giro, e basta vedere il carretto tirato dall’asinello, sulle sponde del centralissimo Mediterraneo in pieno XXI secolo, e ci si crederebbe nel medioevo, se non fosse che alzando gli occhi si resta incantati dai droni, dai dirigibili di avvistamento che annunciano il futuro di un mondo di sofisticate tecnologie di controllo. Sono prime visioni che intimidiscono la voglia di scrivere - troppo complicato, meglio lasciar perdere.


Come per entrare nella Zona degli stalker, come per accedere al Monte Analogo, come a Semipalatinsk o a Cernobyl, come era a Kabul e a Sarajevo, il luogo si è già rivelato nelle sue modalità di ingresso. Valicare Eretz o Rafah – ho avuto familiarità con entrambi i valichi – non è altro che un processo iniziatico, o un corso di formazione a quanto ci aspetta. Transito come magico e rovesciato nei due valichi: senza alcun rapporto umano, ormai, deserto, in Israele, dove il passaggio è mediato da altoparlanti, porte blindate automatiche, scanner senza custodi che ti seguono passo passo con telecamere; caotico, nell’arbitrio del funzionario di turno, nel pigia pigia delle sale di attesa che si trasformano in dormitori per folle che aspettano, aspettano. In entrambi i casi il passaggio di frontiera è una sorta di esercizio spirituale.

Poi, dentro, finalmente s’incontrano gli abitanti, il fattore umano. E viene voglia di scrivere qualcosa per parlare di loro, per testimoniare in loro vece. Che almeno il foglio li aiuti, visto che nella loro prigione collettiva, in balia di una congiura dove tutti tramano contro di loro: Hamas, Israele, l’Egitto, le charities radicali del Golfo, Hamas, l’Autorità palestinese, Israele, l’opinione pubblica israeliana, l’esercito israeliano, i servizi israeliani, la politica di Ramallah, i paesi del Golfo, l’Egitto, l’indifferenza dei media occidentali, la cosiddetta comunità internazionale da tempo in tutt’altro affaccendata, l’Egitto, Israele, Hamas, l’indifferenza, la fatica, l’oblio generali – da New York a non so dove – e via dicendo. Nomi che si riconcorrono e ripetono nel delineare una grande congiura fatta di crudeltà, follia, errori, cinismo, a scapito di questa gente. Gente di casa nostra, gente mediterranea, ma intrappolata, esasperata, che ha conosciuto i suoi primi casi di morti per freddo e per fame, abbandonata da tutti o quasi. Restano l’UNRWA, alcune ONG, i fondi europei (non quelli arabi), la sana stravaganza di alcuni artisti locali e no, che provano reinventare tutto con i famosi murales, trasfroando i fori dei proiettili in stelle del firmamento, o con le insegne delle stazioni di una metropolitana fasulla. Questa gente intrappolata e sottoposta a una barbara trasformazione sociale in senso fondamentalista, malgrado tutto e tutti resta ospitale e carinissima, ma ormai in parte anche incline all’odio – e ce n’è di che. Si scrive male di gaza anche perché se ne immagina male l’avvenire. Di fatto, nessuno potrebbe scrivere di una prospettiva per Gaza. A 2017 inoltrato, dieci anni dopo la chiusura, non ve n’è nessuna, nella congiura locale e internazionale contro Gaza, dove Hamas e Israele, Autorità palestinese e donatori arabi, media e resto del mondo, sembrano convergere ognuno a modo suo per il mantenimento di un irreale status quo.

Anzi. Se qualcuno comincia, ragionevolmente, a parlare della fine della favoletta dei “due stati per due popoli” tra israeliani e palestinesi, magari aggiunge che alla fine gli stati saranno anche due, ma in senso diverso: una casa comune con mille accorgimenti di ingegneria costituzionale per ebrei e palestinesi, e poi, indesiderata anche alla Cisgiordania più laica, e segata fuori da tutto, la striscia di Gaza.


Insomma, non resta che andarci, a Gaza – e consiglio di farlo a tutti, anime pie e viaggiatori veri, giovani che vogliano studiare la politica internazionale e volontari. Aggirandosi fra costanti macerie – della prima guerra, della seconda, della terza, di quale? – difficili da ricostruire, ci si imbatte nella striscia azzurra del mare, bellissima e infida, perché piena di diossina per gli scarichi urbani che avvelenano acqua e pesce – altro che felice balneazione. Droni in cielo, paradossi del passato per le strade, mare traditore, tracce di bombe, per non parlare del sottosuolo: la visita a uno solo dei tunnel dove passa di tutto – di tutto: dalle spose giù agghindate ai vitelli, dai gabinetti alle armi – rivela che anche gli inferi hanno stretto, insieme agli elementi dell’aria, dell’acqua, della terra, del fuoco, il patto scellerato per Gaza.


Rimangono le stelle, troppo lontane per essere trascinate in questa storia, Rimane dunque la notte. La lunga Notte di Gaza. E di notte ho sempre scribacchiato appunti sparsi, le cosiddette “impressioni”. A che pro? Piccolo anestetico liberatorio, forse, non altro poiché Gaza resta indescrivibile, perché ogni scritto resta arretrato. Con una sola eccezione: il rigore scarno dei bollettini di guerra, o in “tempo di pace”, di pseudo-pace, delle organizzazioni umanitarie: consiglio di iscriversi alle newsletter di B'Tselem o del Gaza Situation Report dell’UNRWA: sono tra i più onesti frammenti delle letteratura del viaggio da Gaza. Privi di aggettivi, annunciano cose incredibili: ad esempio, che ancora mentre scrivo queste pagine (luglio 2017) a Gaza la disponibilità di elettricità si è ridotta a quattro ore, con orari imprevedibili. O che un giovane pescatore ventenne è stato ucciso dalle motovedette israeliane, anche se si trovava dentro la zona marittima permessa. O di come anche la spazzatura sia una sfida immensa, e mortale.


Nessuno sa più niente di queste cose. La Siria, l’ecatombe del Mediterraneo, Trump, gli affanni europei, e altro non lasciano spazio per questa vecchia e inutile storia di Gaza. Sì, anche inutile, perché a Gaza quello che accade – che sia il blocco israeliano, l’ottusità egiziana, o la repressione di Hamas – non servono a nessuno di costoro a compiere un passo in avanti. Hamas non è più forte, Israele non è più forte, eccetera. Nessuno vince tra queste macerie fisiche e umane, nessuno potrebbe farlo.

Tantomeno gli scrittori. Che possono limitarsi al consiglio di Fortini, ebreo fiorentino:


C’è chi ne soffre sebbene soffrire non serva.


Oppure,


La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.


Allora, resta il taccuino di viaggio. Poche parole, immagini veloci e senza un ordine apparente, Così è nato, in circa quindici anni di missioni, “Notte a Gaza”. Appunti veri, appunti in forma di appunti, pubblicati prima con un forte corredo fotografico – perché le immagini possono aiutare a dare un’idea dell’indescrivibile, e poi, grazie ai Millelire di Stampa Alternativa, solo il breve testo. Perché tanto oltre alle fotografie ci vorrebbe la voce degli abitanti, e l’odore, e l’espressione del disagio. Perché di Gaza si scrive avec vergogne.


Niccolò Rinaldi


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