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LA LIBIA CUORE DI TENEBRA. Dal faro del Mediterraneo e dell’Africa, dalla grande e potente Libia di


La Libia di dieci anni fa la ricordo bene. Il colonello Ghedaffi si faceva chiamare dal suo popolo il « leader », la « guida », e campeggiava onnipresente nelle strade e nelle edifici di Tripoli. I ritratti ricordavano le molteplici fogge della bambola Barbie, esibendolo in assortite versioni: Ghedaffi ispirato, Ghedaffi bohemien, Ghedaffi che scruta il futuro dell’intera Africa, Ghedaffi militare, Ghedaffi uomo della strada, e ancora. Come costante, però, il colonello preferiva non guardare negli occhi, e le fotografie lo raffiguravano nell’atto di meditare assorto, oppure nel mirare avanti. Dove? La sbornia della Libia avanguardia di un fronte pan-arabo si era chiusa da tempo e maluccio, nella delusione al cospetto di un Maghreb diviso, di una dirigenza palestinese che non si era adeguata agli umori del colonnello, dell’Egitto che aveva scelto l’alleanza con l’America, della Siria del sangue freddo e calcolatore di Assad. Nessuno si era fidato delle sparate - verbali, dinamitarde o missilistiche - di un paese in fin de’ conti ricco ma piccolo (cinque milioni di abitanti), quanto bastava per aizzare proverbiali gelosie. Le antiche frizioni intra-arabe, del resto, uche da secoli hanno costituito la principale arma dell'Occidente.

La bussola della rivoluzione libica indicava allora la direzione dell’Africa. Tripoli disponeva abbastanza per elargire petrolio, borse di studio e un’ideologia dell’orgoglio e del riscatto che era quanto bastava per sposare il prefisso “pan” all’Africa. Il colonello sfoderava amicizie e ricevimenti con i vari Kabila dell’Africa nera, e i cartelloni patriottici di Tripoli indicavano sempre la Libia come luce dell’intero continente - e mai del mondo arabo, o come parte del Mediterraneo. Lo ricordo bene.

E già allora pensai, e scrissi, che la vocazione libica di punta di diamante del pan-africanesimo non sarebbe durata. E non è durata. L’Africa nera era già separata dal mondo arabo da un oceano di sabbia anche più inattraversabile che non l’acqua, e si è allenata nel saper profittare dei donatori di turno, facendo una piroetta ma continuando con il suo tempo e il suo destino. La Libia, in questo, non appariva a tanti africani molto diversa dalla Banca Mondiale: il socialismo del libretto verde era una medicina da ingoiare e sputare come si fa con i programmi di aggiustamento strutturale, prendendo quel che serve.

Ma non pensavo che nel 2018 la Libia si sarebbe trasformata, da faro di vetrina politica per l’Africa, a cuore di tenebra per i migranti che vi transitano. Un antro nero di campi di concentramento dove spadroneggiano trafficanti in combutta con milizie e forze ufficiali, dove non si capisce come sia possibile raggiungere il livello di angherie, di torture, di disumanità che regna, e il livello d’indifferenza del mondo. Un oblio generale perché né le opinioni pubbliche occidentali sembrano avere qualcosa da dire sulle atroci condizioni di detenzione dei migranti trattenuti, né quel fermento di società civile che le primavere arabe avevano smosso – anche a Tripoli – ha battuto finora un colpo.

Al netto delle organizzazioni umanitarie, sulla Libia tacciono tutti, pochi hanno accesso, e resta quasi incomprensibile come una nazione che Ghedaffi voleva plasmare come portavoce degli africani e casa di accoglienza di studenti e politici in cerca di una via autonomista dal paternalismo occidentale, abbia subito la metamorfosi di luogo lager. Provate a chiedere cosa significa il nome “Libia” a un nigeriano o a un eritreo oggi, il brivido che vi scorge immediato sui loro volti, la reazione contrita.

Alla fine, pare che la geografia resti regina dei destini e che la Libia che poteva pure guardare altrove è restata inchiodata al suo destino di un Mediterraneo avvelenato: gli oltre duemila chilometri di coste insistono nell’appartenenza a un bacino fatto di scambi e tensioni, ma se il mare si chiude, a forza di rimpatri e naufragi, le vocazioni storiche e geografiche subiscono la metamorfosi da porti a recinti.

Così la crudeltà che vi ha luogo è un nuovo capitolo del seme del male nelle vicende umane. Oggi la Libia sembra un mondo inaccessibile, uno luogo spaventoso e caotico, dove accadono cose inenarrabili: secondo l’International Organization for Migration, al mercato degli schiavi libico un uomo costa 400 dollari, e chi non è comprato resta letteralmente in balia di aguzzini maledetti. Ma non sono le nostre televisioni e (con poche eccezioni come Al Jazeera) tantomeno quelle arabe, che svelano questo immondo traffico.


§


Eppure, ancora oggi, capita di ritrovarsi nel rovescio della storia, in quei percorsi comuni di una dialettica dei popoli che il Mare Nostrum ha saputo contenere per millenni. E c’è un luogo che più di altri illustra che se si allunga lo sguardo nel tempo, si trova la Libia nel cerchio di casa. A Leptis Magna, 130 chilometri a oriente di Tripoli, con un po’ di fortuna (ma tutto è negoziabile nella Libia di oggi) il viaggiatore visita i resti di una città fenicia e poi romana che in oltre mille anni di storia ha conosciuto uno sviluppo urbanistico grandioso: divenuta colonia romana sotto Traiano, dotata di un circo da Marco Aurelio, di un anfiteatro sotto Nerone, di un immenso complesso termale durante Adriano, Leptis Magna dette i natali all’imperatore Settimio Severo, in cui onore fu edificato un arco di trionfo che ancora oggi svetta con le sue quattro facciate. Travolta dalla fine dell’impero, Leptis Magna fece in tempo a ospitare chiese e mura bizantine.

Poi è rimasta immobile, accogliendo solo ombre e conservando rovine imponenti e talvolta quasi intatte, come nell’anfiteatro e nel teatro che s’affacciano sul mare, o nel foro, nel mercato, nelle terme. Si cammina soli fra questi superbi marmi: altrove una Leptis Magna sarebbe assordata dal chiasso dei vandali tour operators - costà tenuti alla larga dalle mille tragedie dei nostri tempi. Oggi ci sono un paio di ditte locali ben ammanicate che portano i pochi avventurosi che prendono il rischio di arrivare a Tripoli e costeggiare fino alla colonia romana.

La solitaria visita è magnifica – appunto. Ma paradossale, con la relativa accessibilità all’antichità e l’impenetrabilità del contemporaneo schiavista. E non scevra di implicazioni etiche, nel controverso rapporto tra la visita al sublime archeologico, sulla costa libica, così distante eppure così vicina all’orrore del neo-schiavismo, sulla stessa costa libica.

Non ci si potrà ispirare ai romani in quanto a lotta contro lo schiavismo. Ma ripenso a Leptis Magna come a un’alternativa, alla sola altra Libia che ho potuto conoscere con un orizzonte più ampio, oggi. All’uscita del sito il custode mi ha venduto per mezzo euro uno scacciamosche tradizionale, un oggettino da niente. Ma utile, per cercare di smuovere un’aria calda e immobile, che le correnti storiche del Mediterraneo dovranno cambiare.


Niccolò Rinaldi


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