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DUE SCARPE DIVERSE: RONALDO SI È FERMATO A POMIGLIANO E A MELFI


Una squadra di calcio compra un giocatore per 130 milioni di euro e lo paga 30 milioni netti a stagione.

Un sindacalista di un’azienda della stesso gruppo della società calcistica protesta e fa un calcolo: nonostante l’espansione della produzione fuori Italia, ci sono stati annunciati 1.640 esuberi. Esattamente – diavoli di numeri – quanti sono gli stipendi che si potrebbero pagare con il compenso del giocatore, che dunque guadagna non dieci o venti volte più di un metalmeccanico, ma proprio 1.640 volte di più…

Talenti molto diversi, meriti diversi, scarpe diverse per sudori entrambi veri ma diversi: il mercato ha le sue dinamiche, si dice. E alcuni liberali ridicolizzano la protesta, sottolineando che l’acquisto e il contratto del giocatore sono basati su un’altra logica economica e che alla fine, tra maggiori incassi dovuti alla stella calcistica, i costi saranno coperti dall’investimento effettuato. E ha ragione.


Ma io sto con gli operai. Perché il problema è più complesso di quello che appare, va oltre la logica dei numeri e dei mercati per compartimenti stagni, ciascuno con i suoi conti che alla fine devono tornare. Sperequazioni ci sono sempre state, da che mondo è mondo, e il grande campione tiene a bada milioni e milioni di tifosi, nei cinque continenti. Tuttavia in questo caso c’è quasi un segno del destino nel raggiungere l’indecente. Perché non potremmo considerare in modo diverso la straordinaria coincidenza tra i 1.640 esuberi – persone vive che perdono il lavoro – e il rapporto 1 a 1.640 tra gli stipendi di un operaio e di un grande calciatore.


Non sarà colpa del giocatore, non sarà colpa nemmeno dei tifosi che lo impazziscono per lui e ne giustificano il valore, nemmeno sarà colpa della società sportiva che fa le sue scelte con soldi privati; e non è colpa dell’azienda se ritiene più conveniente licenziare in Italia e investire altrove. Ma non è nemmeno colpa di nessuno. Certo non del sindacalista, che espone il dramma di queste cose. E al quale va la mia simpatia, e non il biasimo – anche perché la costante delegittimazione dei sindacati, una moda di questi ultimi anni alla quale hanno contribuito non poco gli stessi sindacati con alcuni loro privilegi corporativi – è una causa diretta del disagio sociale crescente, della paura, del senso di abbandono di cui soffre un’Italia ormai priva di mobilità sociale e di un senso di giustizia condiviso. Chi ha ha, e se lo tiene stretto. A cominciare dalla stessa azienda, incapace di un gesto, di una cultura della comunicazione “verso la sua gente”, in occasione di un acquisto che ci afa apparire in tutta Europa per i nababbi che non possiamo permetterci di essere. I tempi di Adriano Olivetti in Italia ce li siamo scordati.


Se non si capisce il senso di frustrazione, di ribellione, di mortificazione, di rabbia, che episodi come questo suscitano, non si potrà nemmeno capire le storture di un sistema che così com’è non regge, in assenza di tetti salariali, di tassazioni, incentivi e penalizzazioni mirate a uno sviluppo almeno un poco più armonioso della nostra società.

Tantomeno si potrà capire che alla fine è anche una questione di estetica: sono numeri e rapporti di forza, applicati all’uomo, orribili: è uno spettacolo schifoso. Uno di quelli dove, smarrendo la dignità della persona, estetica ed etica coincidono.


Niccolò Rinaldi


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