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E IL DIRITTO ALLA FELICITÀ? Una dimensione sfuggente a qualsiasi parametro e il caso del Bhutan - So


La madre di tutti i diritti della persona resta una chimera? L’unico diritto, tra i tanti sacrosanti sventolati da dottrine politiche e riforme sociali, nascosto nella parte più intima, il diritto che elude tutti gli altri, è il più inafferrabile, il meno rivendicato, il più discutibile: il diritto alla felicità. Alcune legislazioni e perfino alcune costituzioni lo affermerebbero – e uso il condizionale perché dopo la nobile e seducente enunciazione, manca sempre il passo successivo, le concrete misure attuative di un tale diritto, e ancora prima, la misurazione della felicità. Che poi è felicità individuale o collettiva?

Del singolo o della famiglia? E potrei affermare la mia felicità circondato da infelici? L’egoismo si farebbe così sinonimo di felicità. E se una legge può oggettivamente creare lo spazio per la libera espressione, ad esempio di stampa o di associazione, come potrebbe creare le condizioni di una felicità? E la responsabilità di un tale sforzo appartiene più alla sfera delle istituzioni o delle religioni o della cultura o di qualcos’altro?

Vi sono certamente eventi nei quali la felicità individuale coincide con quella collettiva, e a volte sono i più imprevedibili, come la vittoria al campionato del mondo della propria nazionale di calcio. Ed altrettanto certo è che se interpellati su cosa li renderebbe felici, molti miei concittadini metterebbero ai primi posti la vittoria dello scudetto da parte della squadra per la quale tifano. Le “autorità” – chi? İl ministro dello sport su indicazione del parlamento? La FIGC? O un “comitato di saggi” ovvero “commissari straordinari”? – dovrebbero allora assegnare gli scudetti sulla base di una sorta di rotazione, in modo da avere un popolo italiano “felice”, almeno su questo?

Più seriamente, possiamo considerare che la recente proposta del Presidente del Consiglio di introdurre lo yoga nelle scuole, costituisce una misura per intervenire attivamente se non nella sfera della felicità almeno in quella, parente stretta, dell’equilibrio personale. E così per l’insegnamento o la fruizione della musica classica, o di mille altre discipline creative che sanno come liberare l’animo ed espanderlo. Tuttavia molti, con piena legittimità di argomenti, potrebbero contestare che lo yoga o Bach siano fattori di felicità, tanto più se coercitivi. Ognuno ha la sua strada: chi l’alpinismo e chi il gioco degli scacchi, chi imparare a fare torte e chi il ping pong o l’attivismo politico. E per tutti, il diritto alla felicità avrebbe il suo culmine nel diritto ad innamorarsi e a essere amati, nell’amore di coppia ma anche nell’amore per l’altro e per il creato.

Si scivola facilmente in queste digressioni, e alla fine resta è difficile prendere sul serio questo esercizio: la felicità è un cosa troppo effimera e troppo personale per poter essere catalogata.

Così si ergono paraventi dipinti in modo amabile e ci si fa riparo di altri concetti: la crescita economica, il tasso di occupazione, il livello di scolarizzazione, la percentuale di laureati, la fruizione di spettacoli culturali, la partecipazione al volontariato, la leggerezza della burocrazia, la qualità della vita nelle città e ila lunga lista dei parametri ambientali, la possibilità di viaggiare, la vendita dei libri, il numero di matrimoni e dei divorzi, la speranza di vita, il tasso dei suicidi, la bontà dei prodotti della tavola, la facilità della mobilità a tutti i livelli, e così via.

Ciascuno di questi criteri può condizionare la nostra felicità, che tuttavia rimane una dimensione sfuggente a qualsiasi parametro, a qualsiasi calcolo, e anche un criterio apparentemente incontrovertibile, si può rivelare per il suo opposto. Chi ha letto i buoni propositi, con tanto di indicazioni programmatiche vincolanti per gli Stati membri, dell’Agenda 2020 dell’Unione Europea, vedrà in quello sforzo reale la riflessione di plasmare una società più facile, più dinamica, più ecosostenibile. Da nessuna parte si legge “più felice”, ma l’idea è quella (e la cartina di tornasole è proprio nell’ambigua espressione “più competitiva”, che dunque può di più, che ha più scelta). Buoni propositi largamente disattesi. E nel frattempo molti di noi avrebbero il terrore di uno Stato che si propene di organizzare la nostra felicità.


Per questo si entra in Bhutan col passo della massima prudenza e dell’altrettanta curiosità: la monarchia assoluta da poco convertita a democrazia parlamentare, il regno incastonato in inviolate vallate himalayane, il paese difficile da visitare per il numero chiuso e l’elevato per diem richiesto ai turisti. Il paese che è una meraviglia: templi incontaminati, paesaggi mozzafiato, il ritmo del viaggio scandito da strade nelle quali per forza di cose si procede lentamente, l’accoglienza calorosa ovunque da parte di un popolo di montagna, ospitale come tutti i popoli di montagna e che tra le sue tante peculiarità ha anche quella di non possedere, a parte per due famiglie aristocratiche, cognomi: i neonati ricevono un nome che è la combinazione di significati religiosi e astrali, una denominazione considerata ben più elevata che non la ristretta origine di una famiglia.

Queste e altre caratteristiche sono strettamente legate all’”ottava meraviglia” del Bhutan, la sua Gross National Happiness, la Felicità Nazionale Lorda, che già dalle presentazioni pare una derisione del PIL e una visione mille anni più avanti di quelle della Banca Mondiale e compagnia cantando.

Il Bhutan se ne è fatto un marchio di fabbrica, ha lanciato un’iniziativa all’ONU, ha ottenuto un diretto interesse da, ad esempio, Sarkozy, che quando era Presidente della Francia ipotizzò di introdurre l’indice anche oltralpe, ha aperto un dibattito, incrociando la sua esperienza con quella del “Genuine Progress Indicator”, e ha ottenuto il plauso del Dalai Lama.

Due volte ho incontrato la potente commissione che ogni anno calcola l’indice della Felicità Nazionale, secondo nove settori, 38 sotto-indici, 72 indicatori e 151 variabili. Il parere della commissione è spesso vincolante per raccomandazioni e per l’approvazione di alcune leggi. Così una serie di liberalizzazioni, come il modo di vestirsi con jeans e magliette oppure la costruzione di nuovi edifici, sono state abolite tanto che i funzionari pubblici devono indossare l’abito tradizionale, mentre ogni infrastruttura riprende alcuni canoni dell’estetica himalayana, tanto da plasmare un’unità architettonica armonica che coinvolge ogni singola costruzione, dall’aeroporto internazionale di Paro, che ha le sembianze di un castello tibetano, allo stadio di Thimphu, alla più ordinaria stazione di rifornimento di benzina. Bello, molto bello, molto riposante per il nostro sguardo affaticato dalle brutture planetarie.

Allo stesso modo, la commissione ha confermato il divieto della caccia a qualsiasi animale selvatico e imposto un rigido codice di rispetto dell’ambiente. E la seduzione continua ad ammaliarci, così come ci piace, a noi pochi privilegiati che possiamo viaggiare per il Bhutan, la restrizione alle messe turistiche, il numero chiuso ai visitatori tale da renderli sostenibili con la preservazione dei costumi del popolo e con le bellezze delle montagne. La Felicità Nazionale pare comportare una maggiore disciplina, tanto che il Bhutan è il paese meno corrotto tra la Tailandia e il Baltico, e la transizione democratica, con l’introduzione di un sistema parlamentare, è avvenuta senza scossoni.

La “Felicità” fa capolino ovunque, anche a rischio di possibili leggende metropolitane: ad esempio mi si dice che la commissione abbia vietato di scavare gallerie stradali, che in effetti sembrano sconosciute tra queste strade himalayane, per “non offendere la montagna” bucandola. Si rimedia con lunghi tragitti a curve dove ogni tanto spuntano, altra creatura della commissione, alcuni cartelli con ammonimenti come “Nature does not hurry, Yet everything is accomplished”, oppure “Life is a journey, complete it”.

Tuttavia tanta saggezza della segnaletica non basta, perché poi si scopre che il Bhutan ha un tasso di incidenti più alto del Pakistan o del Bangladesh, per via dell’eccesso di velocità e dell’alcolismo. E il divieto di fumarne mi ricorda un altro paese nel quale vige questa misura che giudico di vero progresso, il Turkmenistan – un dittatura che non costituisce un accostamento piacevole.

Forse qualche crepa, nella Felicità nazionale, c’è. C’è ad esempio nella decisione, dovuta sempre a innalzare l’indice, di espellere i bhutanesi di origine nepalese, nessuno die quali, dagli anni Novanta, ha mai potuto fare ritorno nel suo paese natale. Si tratta di circa 100.000 bhutanesi su un totale di 750.000 abitanti, e per loro nessuna pietà buddista è stata applicata. Averli cacciati, e non riammetterli, rappresenta un benessere per chi è restato – insomma, una versione nobilitata della pulizia etnica. Anche l’enfasi nella dimensione quasi bucolica della vita rurale ha le sue contraddizioni: spostarsi nella capitale è scoraggiato, la residenza non è concessa, e di fatto la maggioranza della popolazione residente formalmente non lo è, ciò che comporta, tra le sue conseguenze l’impossibilità di votare alle elezioni. Le quali sono a loro volta un esercizio ambiguo: per candidarsi bisogna essere laureati, ciò che restringe, in un paese contadino come Bhutan, l’elettorato passive a circa il 5% della popolazione… sempre in nome, a quanto pare, della “Felicità”.

Sono sempre ripartito dal Bhutan con il desiderio di tornare in una terra incantata, stregato anche dalla formula vincente per essere applauditi dal resto del mondo – succube di altri indicatori come produzione industriale, connessioni ad alta velocità, volumi di traffici di porti e aeroporti e così via. Ma anche con la sensazione che ogni pretesa di decider cosa sia la felicità e di plasmare una legislazione su tali criteri, sia un formidabile strumento di conservazione e di controllo del consenso. E se così fosse, allora il “diritto alla felicità” è anche il più subdolo e più ipocrita dei diritti umani.


Niccolò Rinaldi


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