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COSÌ L'ITALIA È FUORI DAL MONDIALE - Il patto sociale, 17 novembre 2017


La mediocre pratica delle analisi ex-post verrà servita con abbondanza - come sempre nel calcio, del resto – anche a mo’ di lenitivo per far passare il dolore. Ma al di là delle parole che come fiumi in piena saranno agitate, l’eliminazione dispiace. Ce ne renderemo conto ancora di più quando comincerà il Mondiale, e il rito del vedere le partite con gli amici e compagnia bella, si ridurrà al surrogato del seguire il calcio degli altri. Una volta di più, l’Italia sarà fuori dal mondo che conta e dovrà accontentarsi di “commentare”, e non giocare in prima persona.

Ma in realtà penso anche che ci sia giustizia a questo mondo, perché il calcio italiano non meritava il Mondiale.

Cominciamo dal basso: in un campionato dilettantistico un giocatore esulta indossando una maglietta della Repubblica di Salò (ma si può essere più sfigati, dico io?) e facendo il saluto romano, sul campo di Marzabotto. La società si scusa, ma ci si chiede se non conoscesse già il ragazzo, se nessuno negli spogliatoi avesse visto quella maglietta, o perché sul campo tutti si sono stretti festosi intorno a questo fascistello che onora con ostentazione il ducetto là dove un migliaio di civili inermi furono massacrati dai nazi-fascisti. In un paese serio per tali apologie ci sarebbe il carcere, non i pentimenti via facebook.

Arriviamo al vertice: i tifosi di una squadra della Capitale si divertono a esibire dei manichini con Anna Frank, dimostrando non di essere ignorante, come si dice, ma di conoscere bene la storia e i suoi simboli e di sapere colpire forte. Dopo di loro, il presidente della società si reca in sinagoga per un atto riparatore confessando di andare “a fare una pagliacciata”. Nel frattempo la proprietà della squadra più forte d’Italia è stata coinvolta per collusione con ambienti della ‘ndrangheta per la gestione dei biglietti. Quanto ai giocatori, ormai passano allegramente da una squadra all’altra senza sapere cosa sia l’identificazione con un colore sociale e una città, mercenari interessati solo al guadagno, personaggi pubblici che non sanno più interpretare alcun ruolo guida, non foss’altro che per una passione sportiva.

Si dirà: ma che c’entra col calcio vero, col calcio giocato? E invece c’entra, perché tutto si tiene e l’etica non è un pianeta di un’altra galassia. Una grande tradizione calcistica non è fatta solo di tiri in porta ma anche di valori diffusi, di sano entusiasmo, di comportamenti sociali almeno accettabili. Senza un solido retroterra etico, non ci sarà mai spazio per nessuna vittoria, e se il mondo del calcio è marcio dal Futa 65 ai vertici della Juventus, è facile prevedere che un a Mondiale non solo non si vince, ma nemmeno ci si va.

Non accade solo al calcio: non ci sarà mai una rande imprenditoria capace di confrontarsi con i mercati globali, se ci si abitua sempre più alle rendite di posizione e si dipende solo dai favori della politica – e infatti questa grande imprenditoria è in declino; non ci sarà mai grande politica, se questa non è animata genuinamente da valori forti e condivisi; non ci sarà mai un’università capace di formare la classe dirigente del futuro, al passo coi tempi, se resta prigioniera di baronati e pigrizie varie. Eccetera. Non a caso siamo spesso in fondo nelle classifiche internazionali, e non solo del calcio. La Svezia, del resto, ci ha già battuto con IKEA, che ha insegnato a noi italiani, paesi del design e dell’arredamento, a fare squadra per vendere in tutto il mondo.

L’Italia vinse un Mondiale dopo calciopoli. Segno che la lotta tra caduta e riscatto è sempre viva e la rassegnazione non deve essere di questo mondo. Si cominci allora col guardare le cose in faccia: l’esclusione dal Mondiale è il punto di arrivo di un lungo decino, sportivo ed etico. Che sia l’occasione d’oro per una nuova partita, che comincia col pallone ma anche con la maglietta che indossiamo.

Niccolò Rinaldi


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