GABON, TRA MASCHERE E TEOCRAZIE - Solidarietà internazionale, giugno 2017

Libreville -. Conferenza a Libreville: gli scontri sulla procedura fagocitano il confronto sui contenuti. I delegati, me compreso, sono avviluppati nel solito rito delle circostanze. Meglio uscire all’aria aperta, al centro di questo paese che ha conosciuto una transizione pilotata, e molto pilotata, da una repubblica in stile monarchia assoluta a una repubblica in salsa monarchia costituzionale. Repubblica, perché costà presidenti della repubblica si chiamano i capi di stato; monarchia, perché prima era il padre, e dal 2009 il figlio. Dopo il turbolento passaggio di consegne – elettorale, come si deve, che tanto il vincitore avrà tutte le sue garanzie – ci sono state quelle riforme quanto basta, il minimo sindacale. Diciamo riforme da “reddito di cittadinanza” per restare nei musei delle teocrazie personali africane ma continuare a essere accettati nel salotto delle buone frequentazioni: stabilità, una fedeltà all’Occidente o meglio alla Francia travestita da neutralità, contratti a iosa per gli amici del presidente, e il magnamagna del petrolio, vizio della tavola da gioco con altri paesi vicini – Guinea Equatoriale, Nigeria, Angola. Tra i biglietti da visita del padrone, il palazzo del presidente monarca - l’affare d’oro per i marmisti di Carrara che l’hanno ricoperto da cima a fondo, poverino. Di quei vastissimi saloni bianchi ricordo un banchetto offerto in occasione di una riunione ACP nel 1994: l'attimo dopo che Bongo appoggiò stanco la posata sul piatto, il banditore del cerimoniale, personaggio d’altri tempi, informò di colpo alle centinaia d'invitati che la festa era finita. Tutti s'alzarono di scatto, come a corte. Cena interrotta, e in ogni caso, in un paese con appena un milione e mezzo e tanto bengodi, non si morirà di fame, ma quale parametro della condivisione si prenda il rapporto tra le forze armate nazionali – 5.000 effettivi – e la Guardia Presidenziale – 1.800 tutti per il capo e i suoi più vicini accoliti. Più chiaro del coefficiente di Gini (che è comunque poco sotto 40).
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Fuori da questi palazzi, la “città libera” è una città sfuggente. Libreville sulle prime s’inganna col traffico ordinato, oc col supermercato - uno dei primi in Arica, uno dei più grandi, che resta ancora lo status symbol di una differenza (e che siamo, a Kinshasa?). Ma la geografia pareggia subito i conti con le sue leggi: anche dentro Libreville ci si deve ricordare del continente magmatico dove l’uomo è animale minoritario e indotto a proteggersi con antiche magie. Basta un passo nel museo delle arti gabonesi, memore che fu la musa dei Fang a folgorare Picasso e Apollinaire sulla via della maschera africana, e d’un tratto tutto è religioso, siamo subito uomini religiosi.
Le teche sono di quelle ingiallite, ma bastano gli sguardi “altri” di questi tesori intagliati nel legno. Occhi severi e ancestrali, animati dal rituale che sottraeva alla comunità ciò che per l'occidentale vi è di più prezioso, il tempo. I racconti sulle maschere testimoniano la costanza d’un pensiero ricorrente: l’Africa comunica alla maschera i suoi sogni, le sue incertezze, le sue paure, la propria gratitudine; la maschera, a sua volta, offre la solidità della tradizione, la cattura del tempo entro codici fissi. È un legame antico, di pelle: prima di indossarla, l’africano interroga la maschera, i due restano a guardarsi. Così, più si avanza nell'ascolto della maschera, più si leggono le descrizioni dei miti affisse nelle sale, più troviamo incongrua la pretesa del museo di collezionarla. Intrinsecamente enigmatica, la maschera in Africa si trasforma ai profani occhi occidentali nel volto dal lato oscuro e spaventoso proprio perché svela qualcosa di nascosto in noi stessi. Sappiamo che il Gabon – quello oltre le conferenze e i palazzi presidenziali, il Gabon antico che a fatica ricorda la sua tradizione – si è immerso in una conversazione con le sue maschere che dura da secoli. Al loro cospetto non sappiamo più di “democrazia” o di mercato”, la cronaca è sospesa: la maschera riceve dall'Africa le sue ansie, il suo anelito spirituale. Essa risponde offrendo la tradizione, la continuità, un modo di guardare all'esistenza, di battere il ritmo del tempo che trascorre, suggerisce un'anima. È una frequentazione antica: paesi come il Gabon conoscono la maschera, sanno ancora, perfino nel 2017, come costruirla - seguendo scrupolose modalità e affidandone il compito a un gruppo di artigiani/creatori ben preciso. Sanno poi come usarla, sanno assistere al suo rito, da dentro.
Me ne parlò una volta un medico maliano: anziché cercare il bianco o l'asiatico, l'africano ha incontrato lo straniero imbastendo una frequentazione con l'occulto animato dalla maschera, investita di poteri soprannaturali. La maschera ha l'autonomia di una lacrima: non cede alle voglie dell'uomo ma, durante il rito, commenta e si eleva, financo si dispera. La maschera è oggetto sacro, propiziatorio, simbolico, rituale, tutti attributi dell'essere vivo.
Tutto bene, ma finita nelle sale di questo museo, sotto la maschera non vedremo più volti. Sul suo piedistallo foderato, la maschera non è più indossata, è imbalsamata, pelle disossata e imbottita di anestetico. Il suo sguardo può ancora stupire, al pari delle teste di orso o di felino adagiate sulla loro pelliccia e condannate a fare da scendiletto, o dei capi di alce appesi alla parete ma privi di occhi, così che le orbite delle maschere ricordano il teschio. Niente di più triste che assistere alla consunzione dell’oggetto misterioso e potente, che conduceva la danza, relegato a decorazione. Quanto vorrei, in questo museo, trovarmi, anziché in questo museo, trovarmi in un villaggio dove queste maschere non siano pezzi di studio e di esposizione, pezzo da esteta – seccate, senza parola, morte.
Quantomeno, tuttavia, l'incontro con l'"opera d'arte" nel museo è destinato a lasciare una traccia anche nel visitatore più distratto. Si accontenterà di dichiarare che la maschera è "bella", ma in fondo al cospetto coi suoi tratti abnormi, talvolta mostruosi, se ne va via confuso, perso nel dedalo di storie che la povera maschera trafitta dal piedistallo nella teca tramanda. Perché la maschera africana è una strana creazione, a metà strada fra la maschera-volto dai tratti di una persona viva, e la maschera-crosta, spersonalizzata e dai tratti non identificabili. In quanto a storia vissuta, il legno levigato e la sua corteccia sono credibili quanto la pelle umana. Del resto, chi s'intrattiene con la maschera è pratico della verità, e sa bene che la verità è la voce della convenzione, sia essa l'oracolo o la tradizione.
La maschera è l’alleato segreto di una civiltà. Tuttavia rinchiudendola nel museo, il Gabon si impedisce di indossarla. Si chiude l'ultima strada disponibile per salvarsi: quella di diventare una maschera e di cessare di essere nelle sue vesti nude, preda soltanto della politica, dei “donatori”, dei giri delle conferenze internazionali.
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Piuttosto, allungare il passo e raggiungere poco oltre, questione di mezz’ora di auto, la riserva naturale alle porte di Libreville. Addentrarsi nella foresta equatoriale è solo uno scarto diverso rispetto all’aggirarsi per il museo delle maschere. Tra quegli alberi maestosi si ritrova l'anima africana, il legno nasce da una terra dove ogni centimetro quadrato è vita, tralcio, ascensione verso i raggi di sole che a malapena s’inseriscono come lame taglienti sottili tra le frasche fitte. Il legno diventa poi maschera, la corteccia ha poteri terapeutici, e la guida sa nominare ogni albero, ogni tipo di foglia. Tra questi labirinti verdi verdi, i giovani si ritirano per i riti iniziatici. Le maschere sanno raccontare le forze di luoghi così, i misteri delle foreste – cose di cui noi non sappiamo nulla di nulla. Al massimo si può intuire non solo la continuità museo-foresta, ma anche l’immensa complessità di questa natura e dei suoi abitanti – uccelli, insetti, uomini. Se la maschera è chiusa nel museo della capitale, la foresta quasi la libera, circondando la città, più forte, proprio un’altra dimensione.
Ma poi si torna. Lasciando riserve e musei e pensando che sono appunto tali: riserve e musei.
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Arrivo davanti all’albergo: al Novotel di Libreville le giovani prostitute che scendono dal Camerun si danno a un'insistente caccia a uomini d'affari d'ogni pelle. Offrono ben altre maschere e selve da attraversare. Il rito si riduce a frasi sussurrate, e neanche tanto, come “I suck so good”. Sono ragazze belle, ciarliere ed eleganti, malate forse, o in procinto di esserlo; alcune la sapranno più lunga della vita vera dell'Africa che non una parte dei delegati dell'Assemblea, e insieme a loro avvertiranno una propria forma di frustrazione nel non riuscire a cambiare le cose.
Niccolò Rinaldi