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L'ISOLAMENTO DELLE COMORE - Solidarietà internazionale, giugno 2019



Moroni - Recalcitranti a tutto e a tutti, le isole Comore sono uno di quei territori che non si sanno da che parte prendere. Isole fino in fondo, isole che non hanno voluto la cooperazione, isole che diffidano dell’integrazione, isole che nel loro acquario si possono contemplare a distanza, senza riuscire ad afferrarle, sfuggenti. Esse parlano a nome di tante altre terre che guardinghe non hanno inclinazione per i meccanismi internazionali, e nemmeno per le cooperazioni regionali, fiere di una geografia e di una storia, e in fondo ferite, ancora ferite di una sconfitta che ha rotto la loro unità. In questo, la visita alle Comore è una domanda difficile sul come porsi, dal fuori, rispetto a un mondo che più che chiuso è risentito. Un paradigma, a voler esagerare, dell’intero continente africano che prima di ogni relazione, ha bisogno di affermare la sua storia, di essere riconosciuto. Solo dopo, forse, si potrà “cooperare”, e poco contano la competizione, la contaminazione, la concorrenza, l’integrazione, perché costà serve soprattutto una narrazione condivisa. Tante parti del nostro pianeta sono così, quasi si nascondono - e non per vergogna, ma per diffidenza.


Il biglietto di visita della storia recente di queste isole si presenta con un’indipendenza riuscita “a tre quarti”, per la decisione di una delle quattro isole, Mayotte, di restare parte della Francia; con la rivendicazione permanente che “Mayotte-est-Comorienne-et-le-restera-a-jamais”, come recita in cartello in bella vista presso la principale moschea di Moroni; con quasi trenta colpi di stato riusciti o meno, dal 1975; con una secessione in grande stile domata solo con un intervento militare dell’Unione Africana; con un equilibrio costituzionale fonte di interminabili discussioni tra le tre isole della confederazione, con tanto un presidente per ogni isola più un quarto “dell’Unione”.

Basta e avanza per dedicarsi al proprio centro interno, che non c’è ed è solo ricercato e mai afferrato, anziché preoccuparsi, per dire ciò che prima di tutto balza agli occhi, di trasformare questo paradiso oceanico in un altro bengodi indigeno e turistico come sono riuscite a fare le Seicelle. Perché qui di alberghi quasi non se ne trovano, e quel paio (due, non credo si arrivi a tre) che funzionano alloggiano qualche raro cooperante e poi qualche appuntamento del governo – di visitatori manco l’ombra. Né c’è traccia di ufficio turistico, di agenzie per noleggiare auto, degli altrove onnipresenti “souvenir”, e l’unico museo è sprangato, mentre l’aeroporto è una cosuccia così, piccola piccola. Chi viene alle Comore? Per chi dovrebbe aprirsi?


Visito le rovine di un complesso alberghiero che quando fu “nei suoi cenci” doveva essere niente male, dispiegato su una splendida spiaggia. Venivano turisti dal Sudafrica, ma ora non ne rimane più niente, però ci furono faide intra-governative e l’operazione cadde in disgrazia al punto che fu tutto raso al suolo. Bastò oer scoraggiare altri tentativi di investimento turistico. Integrazione, apertura…?

Il chiavistello per entrare è sempre quello del rispetto, e la riprova viene offerta su un vassoio d’argento nella araba antica grande mosche di Moroni, una serie di arcate sul lungomare che lascia presagire tramonti mozzafiato –ed è così. In assenza di turisti, è inevitabile chi vi entra sia accolto con un riguardo speciale, ma basta poco – quel parlare con un tono un po’ più basso del solito tipico delle isole, quello sguardo che si vuole felice si trovarsi qua ma modesto – e subito gli anziani si alzano e si propongono per un saluto all’imam, per una visita dedicata al piano superiore (altri archi, altra vista…), per stringere mani e spiegare la storia della costruzione e la vita attuale della comunità che vi si ritrova.

Si prosegue, sotto la pioggia, in questa natura prepotente e il giovane che è tornato dalla Francia che s’incontra in una sorta di caffè dice: qui non si muove una foglia, non succede mai niente, non gira un soldo, l’isolamento non è politico, è esistenziale, e riguarda il tutto. L’evento che aiuta a sconfiggere la noia è il campionato di calcio tra le tre isole, anche se la federazione ha quattro stelle, perché la Mayotte è come se ci fosse – ma non c’è, è della Francia. E meno male…, aggiunge.

Perché la donna in cinta che abbia un po’ di soldi e deve partorire, va all’ospedale a Mayotte, e così chiunque debba andare da un dentista più preparato, o chi possa acquistare qualche prodotto appena più sofisticato. Questa Mayotte francese è la maledizione della storia delle Comore, ma è una valvola di sfogo e un ancoraggio che supplisce a tante cose – servizi, beni, lavoro. Dunque, è una mortificazione, la mortificazione di quanto si possa avere restando con la Francia, seppure in un’isola che dicono essere a sua volta malridotta e piena di disoccupati. Quanto basta per fare da interregno, per rifiutare altri contatti col mondo dell’altrove, vicina per provvedere a certi bisogni, ostile per tenerla comunque lontana dal cuore e rinchiudersi ancora.


Ci troviamo quindi in un polo magnetico della solitudine, nel terreno restio a ogni integrazione. Dovremo allora trovare la parola giusta, lo sguardo giusto, per entrare con cautela in questo spazio che ha bisogno ma non cerca la cooperazione - frontiera dell’attesa, luogo dove il tempo batte il ritmo della resa. E strisciante s’insinua il sospetto che queste isole non abbiano forse ragione, nel voler chiudersi, quasi esser dimenticate, frammenti e dettagli che parlano per tutti quelli che, luminosi o cupi a seconda delle latitudini e della storia, non ne vogliano ancora sapere di far parte di un mondo più ampio e pensino di bastare a se stessi.


Niccolò Rinaldi


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